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ParmaJazz Frontiere</br>Intervista a Roberto Bonati

ParmaJazz Frontiere
Intervista a Roberto Bonati

27 ottobre 2017

Viene inaugurata oggi a Parma, con un’anteprima di Barre Phillips ed Evan Parker, la XXII edizione del festival ParmaJazz Frontiere, che presenta anche quest’anno un ricco programma di concerti, masterclass ed eventi, confermandosi un luogo di incontro tra diversi generi musicali e multiformi linguaggi artistici e culturali. Ne abbiamo parlato con il direttore artistico Roberto Bonati.

di Luciano Vanni

Cosa significa, al giorno d’oggi, essere promoter di un evento jazz?

Posso dirti cosa ha significato e significa ancora oggi per me creare un festival e portarlo avanti per tanti anni, che in definitiva coincide con l’amore per un “qualcosa”, un modo di fare musica: vuol dire cercare di cogliere gli aspetti nuovi del linguaggio musicale; trovare musicisti che, coniugando le tradizioni con la contemporaneità, gettino semi per il domani, che pratichino una loro differenza. In un mondo sempre più omologato l’arte dovrebbe essere il luogo delle alterità e delle unicità. Siamo stati sulle barricate diverse volte per salvare il festival, ma sempre guardando avanti, coltivando una speranza. Ciò significa anche, posti di fronte a scelte necessarie, considerare in primis sempre le ragioni della musica e questa è, oggi ancor più di ieri, forse la cosa più difficile per riuscire a restare in piedi e a non perdere l’equilibrio.

Raccontaci, in poche parole, il carattere, l’identità e i valori del vostro festival: cosa vi contraddistingue dagli altri?

Il festival nasce nel segno delle “frontiere” e quindi si pone sin da subito come un territorio di scoperta, di avventura, di luoghi sconosciuti e inesplorati, ma anche di luoghi nei quali si rendano possibili gli incontri: con altre culture, altre musiche, altri linguaggi, altre tradizioni. Un luogo fertile, dove si cerca di costruire più che di fabbricare eventi. Ed ecco allora che il festival si è mosso attraverso tre importanti azioni: produzione, formazione e ospitalità.

Quali sono gli strumenti con cui riuscite a finanziare la vostra attività?

Il festival è nato nel 1996 con il solo finanziamento della Fondazione Monte di Parma, grazie alla visione aperta e lungimirante del Presidente Avv. Gaibazzi.
Nel tempo sono entrati in questa avventura molti altri sostenitori, oggi abbiamo anche finanziamenti pubblici ottenuti attraverso convenzioni che hanno, di solito, durata triennale (Regione Emilia Romagna e Comune di Parma). Quest’anno, attraverso un bando, abbiamo ottenuto un contributo anche da Fondazione Cariparma. Poi ci sono alcuni sponsor privati: la famiglia Dallara, che ci permette di presentare ogni anno il progetto Una stanza per Caterina (concerto dedicato a Caterina Dallara, che ci ha prematuramente lasciati) e Chiesi Farmaceutici. Da alcuni anni l’Ambasciata di Norvegia ci sostiene e aiuta, non solo e non tanto in senso finanziario, ma anche per i progetti relativi alla produzione e alla formazione che coinvolgono i due Paesi. Negli ultimi anni abbiamo avuto inoltre alcune generose donazioni da parte di privati e anche questo sembra poter essere, sorprendentemente, un canale di finanziamento interessante.

Che relazione avete con il tessuto cittadino? Come siete riusciti a coinvolgere gli abitanti della vostra città?

Abbiamo una buona relazione con il tessuto cittadino e un seguito di appassionati fedeli sia in città che in regione. Molto importanti per i rapporti con la città sono le convenzioni con il conservatorio “A. Boito”, con il liceo artistico “P. Toschi” e con il liceo musicale “A. Bertolucci”. Queste collaborazioni sono progettuali e vedono la realizzazione di concerti, laboratori e video all’interno e intorno al festival. Molto di più si potrebbe fare in termini di comunicazione e formazione ma le nostre risorse non sono mai state abbondanti e sono state oltretutto molto ridotte negli ultimi cinque anni, rendendo quindi difficile mettere in campo una strategia di comunicazione come si dovrebbe. Sono girate in passato, e ogni tanto girano ancora, voci secondo le quali proponiamo una musica “difficile”, ma è interessante vedere come allo stesso tempo in questi ultimi anni sia di nuovo aumentato il pubblico e come quello di non addetti ai lavori abbia reagito entusiasticamente ad alcune produzioni avventurose, come le improvvisazioni per orchestra che abbiamo prodotto. In realtà, nel pubblico in genere, c’è molto interesse per le programmazioni innovative.
Parma è una città che offre una buona offerta culturale, molto ricca a paragone di altre città italiane. Ci sono numerosi teatri attivi, festival musicali, un Conservatorio con grandi eccellenze, importanti musei e complessi monumentali. Molte di queste realtà hanno un profilo internazionale e mantengono rapporti importanti con istituzioni, artisti e festival europei, e sono queste realtà a costituire l’ossatura culturale “stabile” della città, al di là dell’alternarsi delle giunte. Parma è anche una città nella quale esiste un teatro di tradizione come il Teatro Regio, verso il quale vengono indirizzate la maggior parte delle risorse economiche. Sarebbe bello se questo potesse diventare un centro di propulsione di ciò che avviene in città.
Ma Parma è anche una città nella quale per diversi anni sono mancate scelte di politica culturale che potessero coordinare le forze in campo e creare reali collaborazioni. Mi sembra comunque che negli ultimi mesi si stia raddrizzando il timone da questo punto di vista e altresì da quello della visione progettuale, ho quindi buone speranze per il prossimo futuro.

E che tipo di relazione instaurate con la comunità artistica coinvolta nel programma? Stimolate la nascita di produzioni originali? Contattate direttamente i musicisti o le agenzie di rappresentanza?

Per le produzioni originali, che sono uno dei cardini della nostra programmazione, abbiamo rapporti diretti con i musicisti, mentre per le ospitalità a volte collaboriamo con alcune agenzie. Spesso i musicisti che vengono al festival tengono masterclass in Conservatorio e quindi il rapporto progettuale e diretto si intensifica.

Che tipo di comunicazione avete adottato per valorizzare il vostro evento?

Oramai da qualche anno abbiamo affiancato alla comunicazione più tradizionale, ovvero quella sulle testate cartacee, radio e televisioni, ma anche siti web e un assiduo lavoro sui social: vogliamo coinvolgere quanto più possibile il nostro pubblico. Perché quello che manca oggigiorno è proprio la dimensione del live. La gente fa sempre più fatica a uscire di casa e a recarsi fisicamente agli eventi. Così cerchiamo di coinvolgere il nostro pubblico, oltre che con un’attenta costruzione del programma, anche bussando alla sua porta attraverso i social.

Andiamo sul programma: che musica ascolteremo in questa edizione?

È un programma ancora una volta costruito sull’intreccio tra improvvisazione e composizione e su come questi due aspetti dialoghino e vadano a congiungersi, non attraverso l’adesione a uno stile, ma nella totalità di linguaggi dalle molteplici radici. Un’improvvisazione che è composizione, una composizione che è improvvisazione.
Abbiamo due progetti di giovani musicisti, due nuove composizioni in prima pubblica assoluta, quella dello European Academy Ensemble, con studenti provenienti dalle accademie di Göteborg, Oslo, Stavanger e dal conservatorio di Parma e quella di Andrea Grossi con la Blend Orchestra, la prima italiana del mio lavoro “Nor Sea, Nor Land, Nor Salty Waves” con la Civica Jazz Band di Milano, un laboratorio della Chironomic Orchestra, poi Jim Black, Evan Parker, Barry Guy, Barre Phillips, Savina Yannatou, Louis Sclavis, Pericopes e tanti altri.

Tra i tanti artisti in cartellone, quali sorprese ti attendi?

Spero che tutti i concerti portino una piccola grande sorpresa, una magia speciale. Gli artisti invitati sono tutti di prima classe e quindi tutti hanno la possibilità di creare un momento di meraviglia.

Come si è evoluto, negli anni, questo evento?

Mi sembra si sia sempre più delineato come un festival di produzione e di formazione, unendo spesso le due attività in un ambito progettuale.

E come vi vedete tra cinque anni? Cosa vorresti che accadesse?

Tra cinque anni, ma spero anche prima, vorrei che il festival potesse ospitare solo prime assolute e quindi avere molte commissioni da affidare; vorrei inoltre riuscire a dare una stabilità che esuli dalla mia presenza e soprattutto che possa acquisire lo status di festival di Musica e non solo di Jazz, un festival al di là degli stili.

Qual è la più grande gratificazione umana e professionale che vivi ogni volta che promuovi questa manifestazione?

La sensazione che ho spesso è quella di attraversare la piscina di Bagno Vignoni tenendo accesa la fiamma della candela come fa il protagonista in Nostalghia di Tarkovskij. Ma ci sono tante altre gratificazioni: la gioia degli artisti che si sentono ospitati e messi nelle migliori condizioni per suonare, i complimenti che arrivano per la nostra organizzazione (abbiamo uno staff eccezionale), sentire la partecipazione affezionata del pubblico, qualcuno che uscendo dal teatro si avvicina e ci ringrazia, portare qui e riuscire a far conoscere al nostro pubblico progetti speciali, artisti di “frontiera”, sentire la passione dei giovani musicisti, la consapevolezza di seminare per il domani. Ecco tutto questo credo sia molto importante.

E infine: tre parole per descrivere il vostro festival

Visionario, poetico, con lo sguardo rivolto al futuro.