7 febbraio 2019
Si intitola Tracce di Memoria l’ultimo album di Tiziana Bacchetta: l’abbiamo intervistata.
Come ti sei avvicinata al jazz? E al canto?
Il jazz (e non solo il jazz) è sempre stato nella mia vita fin da bambina, avendo avuto un padre musicista che suonava clarinetto e sassofono. In casa quindi respiravo musica tutto il giorno, sia suonata sia ascoltata, sempre in alta fedeltà; ricordo come fosse ieri anche i concerti (di solito di musica classica) cui lui mi portava, le lezioni di musica, il via vai continuo di musicisti, cantanti, etc.; oggi sono molto grata per questa eredità che mi ha lasciato.
Per quanto riguarda il canto, la sua scoperta è stata un po’ una sorpresa per me, dal momento che il mio vero amore era sempre stato il pianoforte; un amico chitarrista (oggi mio marito) tanti anni fa mi chiese di cantare un pezzo che stava suonando e da allora ho ricominciato a studiare seriamente, intraprendendo prima un percorso classico per voce e piano, per passare poi negli anni al blues (la mia vera anima!), al gospel e approdare infine al jazz. In questo passaggio dalla formazione classica all’approccio con il crying della musica afroamericana l’incontro con Harold Bradley, che considero un grande maestro, è stato determinante. Direi perciò che il filo diretto musica – canto- jazz è stato per me un unicum naturale e fisiologico…
Come hai scelto i musicisti del disco?
Tracce di memoria è prima di tutto un’esperienza umana, un unplugged dell’anima, come ho scritto nelle linear note. Volevo avere vicino musicisti che prima di tutto condividessero, non solo idealmente, il mio progetto e che, in un certo senso, “si innamorassero” dei brani, che sono quasi tutti originali (sei su otto) e non tutti facili all’ascolto. Con Raffaele Cervasio e Arturo Valiante avevamo già collaborato nel mio primo disco, “Non solo Parole Confuse” edito da Philology Jazz (l’unico inedito dell’album era di Raffaele); e così anche con Mario Donatone e l’ensemble vocale (Giovanna Bosco e Anna Pantuso) con i quali abbiamo inciso una versione gospel/soul di God bless the child; con loro ho condiviso anche anni di esperienze live, e quindi la loro presenza nel disco era naturale, soprattutto per il modo in cui avevo deciso di arrangiare alcuni brani. Carlo Bordini, Pino Sallusti e Giacomo Tantillo li ho “misticamente” incontrati in differenti situazioni e molto naturalmente hanno aderito al progetto. Quello che voglio dire è che l’incontro tra i background personali prima ancora che artistici di ognuno di loro, di stili, di sensibilità, di culture, a volte anche molto diversi, sono la vera magia di questo disco; e questa magia è stata possibile perché ciascuno di noi si è espresso sinceramente per quello che è, mettendo in primo piano, prima della tecnica (pur importante) la capacità di intendersi soprattutto come esseri umani; e così, in questo contesto di condivisione e partecipazione, la musica è diventata lo strumento, il mezzo per raccontarci e raccontare delle storie attraverso le nostre storie.
Il risultato è stato bellissimo perché ci siamo veramente divertiti durante tutto il percorso, dalle prime prove fino alla registrazione in studio. E quando Pino ci ha lasciati ho sentito veramente il valore e lo scopo di tutto quello che avevamo fatto, e, soprattutto, il grande dono ricevuto con la sua presenza nel disco. Che infatti ho voluto dedicare a lui e alla sua memoria.
Come hai lavorato a composizioni e arrangiamenti?
La maggior parte del lavoro, durato circa sette anni, è stato realizzato con Arturo Valiante, caro amico e grande pianista, partendo dai brani grezzi (scritti con il coautore Raffaele Cervasio, che ha suonato la chitarra), cui sono seguite le riscritture, l’individuazione dello stile, voluto da me diverso per ogni brano, e le partiture I brani sono storie di vita vera, di sentimenti umani, semplici ma profondi; otto tracce diverse ma tutte legate dal filo conduttore dei contenuti testuali, incluse le due cover; e anche la scelta di quest’ultime è stata da me fortemente voluta. Ogni pezzo è un racconto diverso che, in tutta sincerità, ho cercato di cantare, (come diceva Art Blakey) “da dentro”, partendo dal cuore. Carlo Bordini e Pino Sallusti hanno dato un grande contributo agli arrangiamenti ritmici, in particolare in “Lontano”; su questo brano è stato fatto un grande lavoro, paradossalmente, di “sottrazione”- come ha detto Carlo – più che di “addizione”, con l’intento cioè di creare un’atmosfera rarefatta, minimale ma, allo stesso tempo, molto forte dal punto di vista emozionale. Durante la sua registrazione ci siamo ritrovati tutti come in trance. Gli arrangiamenti di “Vita in blues” e “A song for you” sono di Mario Donatone, pianista bluesman e grande amico, che ha anche curato gli arrangiamenti delle voci del coro su “Domani”. La genialità e il talento di Giacomo Tantillo, da me fortemente voluto nel gruppo, hanno infine conferito con la sua tromba “il tocco finale” al lavoro.
Definisci il disco in tre aggettivi
Partecipato, vitale, appassionato.
Perché fare un disco nell’era dello streaming?
Per me dal punto di vista dell’ascolto (parlo come utente) nulla è cambiato con l’avvento dello streaming; continuo a comprare dischi come prima, anche per sostenere gli artisti e tutto ciò che si muove attorno ad un disco. Nell’ascoltare musica considero la qualità dei suoni fondamentale: insomma, non riuscirei mai ad ascoltare Bach dallo smartphone o dal pc. E poi ogni disco, in quanto oggetto fisico, si porta dietro mille significati: è lì, lo puoi toccare, conservare, oltre che ascoltarlo, puoi leggerne la storia sfogliando il booklet, e quindi attraverso le immagini degli artisti che lo hanno realizzato saperne di più sulle loro vite, le loro storie. In fondo la musica è espressione della vita.
Come artista credo che fare dischi oggi sia comunque ancora molto qualificante e gratificante, non fosse altro per tutto il lavoro e lo sforzo che c’è dietro, che non è certo poco; questo senza nulla togliere alla maggior funzionalità di certi strumenti tecnologici, come i video, molto utili per la diffusione della propria musica.
E poi, fortunatamente, ci sono ancora etichette discografiche serie, che apprezzano il valore dei dischi al di là dei profitti, veri cultori appassionati; io sono stata particolarmente fortunata di aver incontrato la G.T. Music, che ha ascoltato il mio lavoro, lo ha apprezzato e lo ha pubblicato. Perciò ad Antonino Destra e Vannuccio Zanella va tutta la mia gratitudine.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Ovviamente un altro disco! Che è già in cantiere, ma è ancora top secret!
© Jazzit 2019