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Giornalismo musicale</br> Intervista ad Ashley Kahn
Photo Credit To Leonardo Schiavone

Giornalismo musicale
Intervista ad Ashley Kahn

3 luglio 2017

Abbiamo incontrato  durante l’ultimo Jazzit Fest a Feltre il giornalista e scrittore Ashley Kahn, vincitore di un Grammy Award per le liner notes, professore alla New York University e collaboratore di lunga data di Jazzit. Abbiamo parlato con lui dello scrivere di musica e del suo nuovo libro,  “Il rumore dell’anima”, appena pubblicato da Il Saggiatore.

Di Laura Valle

Come ti sei avvicinato al giornalismo musicale?
Si dice che la musica sia una vocazione,  che tu diventi un musicista, o un professionista che lavora in una casa discografica, o un produttore in studio, o un giornalista che ne scrive. Ho incominciato come produttore di concerti e come tour e artist manager, prima di diventare un giornalista. L’urgenza di scrivere è qualcosa che ti capita in modo naturale, sai di essere predestinato a supportare in modo creativo ciò che ami. Mi piaceva la musica, sapevo che avrei potuto scriverne e che non volevo essere un critico: non volevo giudicare il valore di un album, di una registrazione o di uno spettacolo live, volevo essere un giornalista musicale e raccontare storie sulla musica e sui musicisti.

Scrivi normalmente di jazz, ci sono anche altri stili musicali che ti piace seguire?
Non voglio scrivere solo sul jazz, voglio scrivere della musica che mi piace. Non ho bisogno di recensire e dire ciò che è buono, se ne sto scrivendo è perché mi interessa,  ho un’attitudine positiva verso questa musica; ascolto tanti generi musicali, mi è semplicemente successo di scegliere il jazz perché rispetto questo stile, forse perché è più profondo, più sofisticato, è più in sintonia con me, ed è perché il jazz mi interessa di più.

Hai un nuovo libro che è appena stato pubblicato in Italia dalla casa editrice “Il Saggiatore”, una raccolta dei tuoi più importanti scritti e ricordi, Il rumore dell’anima. Perché hai scelto questo titolo?
Il mio titolo era Listening Under Deadline (Ascolto a scadenza), che è divertente, perché credi di avere tempo per focalizzarti sulla musica e improvvisamente pensi: “Oh mio Dio! Devo finire di scrivere questo saggio entro le 9 di domani!” Pensavo che fosse un modo simpatico di essere parte della “classe lavoratrice”, che essere uno scrittore è essere un lavoratore, ma il mio curatore a Il Saggiatore, Luca Formenton, ha proposto questo titolo alternativo che funziona alla grande anche con la grafica del libro. Insomma, qualche volta mi sbaglio: e in effetti un libro è un progetto collaborativo,  un lavoro di squadra, non puoi portarlo a termine da solo, ci vuole più di una persona. Adoro questo titolo, onestamente parla dell’emozione, sia che scriva di Lester Young, o di Eric Clapton, o Jimi Hendrix, o i Led Zeppelin o i Beatles, riguarda la stessa emozione.

Come hai selezionato gli scritti e le memorie inclusi nel libro?
Non ho scelto io tutti i saggi, le recensioni e le note di copertina, è stata nuovamente una collaborazione con. Devo dire che, come scrittore, non si ha spesso il privilegio di lavorare con qualcuno che è un po’ come se fosse un produttore, come George Martin per i Beatles, è così che mi sono sentito con Luca, non ho qualcuno come lui in America, sono dovuto venire in Italia per trovare qualcuno che credesse in ciò che scrivo. Dio benedica Luca Formenton!

Hai vinto un Grammy Award per le note di copertina all’edizione di John ColtraneOffering: Live At Temple University”. Come è stata quell’esperienza?
Non ho mai vissuto niente di simile in vita mia. Sono stato nominato altre due volte, e già questo era incredibile, perché ti senti sulla cima di una montagna, OK? Sei sulla cima della montagna con altre quattro persone, nominate anche loro, e poi annunciano il tuo nome! E ti senti come se camminassi sospeso nell’aria, e non cadi, sei sospeso per aria, è così che mi sono sentito. E ciò che ha reso tutto questo ancora più speciale, e che è stato per John Coltrane, uno dei miei più grandi miti, così, detto onestamente… sono contento di essere andato in bagno prima!

Come procedi normalmente nello scrivere?
Parola per parola, frase per frase, paragrafo per paragrafo. Penso come ogni altra persona creativa. Come fa un pittore? Pennellata per pennellata. Come fa un musicista? Un brano alla volta. Voglio scrivere frasi, paragrafi e saggi, non entrare nel modo di fare musica, lasciare invece che l’ispirazione e la magia della musica giungano attraverso le mie parole. Scrivo come se fossi una finestra con un vetro attraverso il quale si può vedere la musica. Una volta Wayne Shorter mi disse che aveva letto un mio libro durante un volo da New York a Los Angeles, in quattro o cinque ore, e che la ragione per cui l’aveva finito era che, per lui, le mie parole erano come acqua. Mi disse: «Temo che non sia una buona cosa…», e gli risposi: «Lo prendo come un complimento, molto bello, grazie». E con acqua, intendo esattamente ciò che voglio che sia la mia scrittura. Non voglio entrare nel merito della musica, voglio che i miei lettori traggano ispirazione, e poi ritornino alla musica, e se lo fanno io ho avuto successo, sono felice, il mio lavoro è fatto.

C’erano tanti giovani, oggi, ad assistere alla tua conferenza sul futuro del jazz. Hai qualche suggerimento per i giovani studenti che vogliono avvicinarsi al giornalismo musicale?
È una buona domanda, e anche una domanda difficile. Devi farlo perché lo vuoi veramente, perché lo senti nel profondo del cuore, poiché non si guadagna molto con questo lavoro. Il secondo suggerimento  è che bisogna scrivere continuamente per diventare bravi, bisogna tenere il culo inchiodato alla sedia di fronte al computer e scrivere, e arrivare al punto in cui si ha una buona sensazione su quello che si sta scrivendo, in cui c’è equilibrio tra descrivere la musica, parlare della storia dietro la musica, quali dettagli siano necessari e quali no, e per questo ci vuole tempo, deve diventare naturale. Dopo un po’ si matura quella sensazione, si acquisisce un modo di parlare a se stessi e alla propria testa di quello che si sta scrivendo, ed è ciò che intendevo. Preparatevi ad investire moltissimo tempo. Una cosa ancora: bisogna leggere gli altri scrittori, non gli scrittori musicali, state lontani dagli scrittori musicali! Bisogna leggere buona scrittura: giornali, riviste, siti web e, naturalmente, i grandi classici. Traggo ancora molta ispirazione dai grandi scrittori in lingua inglese come Graham Greene, sono un suo grande fan perché è così bravo nel descrivere i personaggi senza farlo davvero, li racconta attraverso le azioni, ed è una grande idea.

Hai scritto dei più importanti musicisti. Vorresti condividere un aneddoto con noi?
A molti musicisti non piace essere intervistati. È doloroso, per loro, perché a volte le domande sono veramente noiose o invasive, come se penetrassero sotto la loro pelle. C’è un’intervista molto lunga con Keith Jarrett nel libro; una cosa che avevo deciso quando gli ho parlato era che non gli avrei chiesto nulla di complicato, ma che gli avrei sicuramente chiesto di Miles Davis. Non abbiamo mai parlato di Miles, così anche quando ho un programma è sempre più di quello che voglio realizzare. È stata una conversazione simile a quella che stiamo avendo noi ora, volevo che fosse a suo agio, che sentisse che non stavo parlando ad un musicista ma ad un uomo in un bar, con il quale stavo bevendo una birra. Credo che sia questa la ragione per cui ho avuto una così bella intervista con Keith Jarrett, o con Robert Plant dei Led Zeppelin. Ho rinunciato all’idea delle solite domande e risposte, ed è diventata più una conversazione.