Ultime News

Alessandro Galano
Moanin’
La versione di…

Alessandro Galano<br/>Moanin’<br/>La versione di…

27 luglio 2020

Quinta puntata della rubrica di Jazzit a cura di Alessandro Galano

Trovare la versione, scovare la chicca. Collegare epoche tra loro distanti ricongiungendo sonorità e linguaggi: giocare con il jazz, insomma, provando a dare un ordine – o una bozza – al meraviglioso disordine che lo sostanzia. Ecco il senso di una rubrica per puri perdigiorno jazzofili, sempre a caccia di questa o quella rivisitazione di questo o quel brano: piccolo treno che schizza sulle rotaie della storia e che non può non partire da lontano, in ossequio alla tradizione.

Di Alessandro Galano

“I said, ‘OK, we’ve got it down…We played it and laid them out. Boy, they loved it. The name of the tune was ‘Moanin“. Benny Golson l’ha sempre raccontata così. Una cosa saltata fuori in un solo giorno, in un posto sperduto chiamato Marty, Ohio. Gli Art Blakey’s Jazz Messengers sono in tour, è il 1958 e il pianista Bobby Timmons viene invitato dal sassofonista a provare quella “lick” funky che qualche volta suonicchia tra una melodia e l’altra, durante i concerti. “Crea un ponte” gli dice, mentre fanno le prove. A sera, al concerto, nasce Moanin’, pietra miliare dell’hard bop: uno standard che nella sua semplicità racchiude blues, funk e negro spiritual, soprattutto questi ultimi. Ed è proprio come la racconta Golson che è andata: sin dalla prima volta, suonata l’ultima nota, il pubblico l’ha subito amata – they loved it.

Il disco di riferimento porta il nome del brano, Moanin’, registrato il 30 ottobre del 1958 per la Blue Note, probabilmente il più famoso dei “messaggeri del jazz” al seguito del celebre Art Blakey. Oltre al batterista e leader, al sassofono di Golson e al pianoforte di Timmons – curioso che firmerà solo questo brano del disco, quasi tutti composti da Golson – completano la formazione Jimmy Merrit al contrabbasso e Lee Morgan alla tromba. Un brano orecchiabile, spesso confuso con un altro super standard, quel So What di Miles Davis inciso nell’album jazz più popolare di sempre,  Kind of Blue. In realtà il ritmo è identico, l’armonia è simile ma se si ascolta con attenzione sono due brani che vanno in due direzioni differenti: ad accomunarli, senza ombra di dubbio, è il Call-and-Response alla base di entrambe le strutture che però, in Moanin’ è molto più marcato. A confermarlo è la versione fornita nel 1962 dal grande Jon Hendricks, a cui si deve il testo, cantata in trio con Dave Lambert ed Annie Ross: una riproposizione canora che ha reso popolarissimo il brano, nella quale salta letteralmente all’orecchio quel “Yes, Lord!” in risposta alla chiamata di ogni strofa – la quintessenza di qualsiasi spiritual, come testimonia l’apertura del brano: quel “Ogni mattina mi trova gemendo” che si riferisce apertamente a Lui, the Lord, il Signore.

Non deve stupire allora che un’altra versione interessante di Moanin’ – a parte quella più che onesta del suo creatore, Timmons, alla testa di un trio tutto suo composto da Sam Jones al basso e Jimmy Cobb alla batteria – sia ancora una volta cantata.

Con un bel salto di oltre quarant’anni, nell’album “In Blue” del 2002 è la jazz-singer Karrin Allyson a dare un tersissimo contributo alla causa: limpidezza, intonazione, armonia ed eleganza per questa cantante spesso in odore di Grammy e molto amata negli States, in grado di tenere in vita uno standard come questo senza invecchiarci dentro.

Qualcosa di simile ha fatto una “enfant” di talento in tempi ancora più recenti: la trombettista, sassofonista e cantante spagnola Andrea Motis, classe 1995, in un live in San Sebastian facilmente reperibile datato 2015, dove si esibisce voce e tromba con la Sant Andreu Jazz Band, fornendo una resa nient’affatto banale.

A proposito di assenza di banalità: il nome Eldar Djangirov dice niente? Siamo sempre oltre gli anni ‘2000 ma lo strumento è cambiato: questo trentatreenne nato nell’allora Unione Sovietica, poi trasferitosi a Kansas city, ha davvero tanto da dire con il pianoforte. La sua Moanin’ è brillante, virtuosa, incisa nel 2005 insieme con due compari tutt’altro che trascurabili, John Patitucci al basso e Todd Strait alla batteria – nello stesso album, “Eldar”, ma non nel brano, figura come ospite un certo Michael Brecker, altra garanzia di qualità.

Restando in argomento, va segnalata anche la lettura firmata dall’esperta Rhoda Scott: il suo organo Hammond C3 viaggia veloce in un video registrato per la tv americana negli anni ’70 ed è davvero gustoso sentirla salire e scendere le montagne russe di un brano così affabile – ad accompagnarla, soltanto la batteria di Cees Kranenbuerg Jr.

S’è detto del Moanin’ originario, dunque, delle doverose versioni canore, del pianoforte e dell’organo. Non può mancare il contributo chitarristico e qui, come spesso accade, a dare un’impronta straordinariamente personale è Wes Montgomery, uno che quando si parla di standard da interpretare non è secondo a nessuno. La sua versione del brano di Timmons è inclusa in Portrait of Wes, ottobre 1963, ed è impeccabile: elegante, cristallina, a tratti sorvegliata – per coglierne gli aspetti più minuti si faccia il confronto con “Freedie The Freeloader” di Miles Davis, traccia d’apertura del medesimo lavoro discografico in cui Wes tira fuori un’improvvisazione più vicina ai suoi stilemi tipici.

Ma se Moanin’ è considerato uno dei primi brani di jazz-soul, come si diceva un tempo, con chiaro riferimento all’anima spiritual che ne sostiene l’impalcatura, lo si deve anche a Charles Mingus, alla versione che il geniale compositore dà del concetto di “lamento”: perché i moanin’ – come i “cries”, i “pianti cantati” che risuonavano nelle piantagioni – sono letteralmente questo. Lamenti, invocazioni, “urla musicate” che vogliono afferrare Dio allo scopo di scaraventarlo sulla terra, in questo fedeli alla primordiale immanenza divina insita nelle religioni africane, in cui è l’Essere Superiore che viene giù e non viceversa. Ma la Moanin’ di Mingus, va precisato, è proprio un altro brano, talora confuso con quello suonato dai Messengers di Blakey: poco importa, in fondo, perché è soul, è spiritual ed è funk proprio come quello composto da Timmons.

E, soprattutto, è un grande, grandissimo brano parte di un grande, grandissimo album, quel “Blues & Roots” registrato per Atlantics nel 1959 che, con i suoi quattordici elementi, è alla base di un lavoro di rivitalizzazione in chiave afro del concetto stesso di big band.

Una bomba, insomma. Semplicemente una bomba.