
«Le macchine si guastan con l’uso; i violini con il riposo»
Giuseppe Prezzolini
Conosco Massimiliano Gilli da molti anni; eclettico violinista, direttore artistico del Perinaldo Festival, didatta abilissimo che riesce a formare gli allievi proponendo indifferentemente classica, jazz, rock, folk, è una figura musicale di grande rilievo e significato. L’ho intervistato mentre prepara la X edizione del Perinaldo Festival, che si terrà nella provincia di Imperia dal 24 al 31 luglio.
Come sei diventato violinista?
Nasce tutto nella mia famiglia: mio fratello, più grande di me, suonava già il clarinetto al conservatorio, mentre mio papà aveva l’hobby di dirigere le bande nella val di Susa. La scelta del violino si è compiuta per caso, in realtà volevo suonare uno strumento a fiato ma all’epoca in conservatorio c’erano pochissimi archi e molti fiati, così mio fratello mi consigliò il violino: un giorno trovai sul letto uno strumento 2/4 e da lì è cominciato tutto!
Hai avuto un formazione classica?
E non solo! C’è stato un momento della mia vita nel quale il repertorio classico è stato secondario grazie a una lunga deriva musicale verso rock, folk, jazz; poi ho chiuso di nuovo il cerchio tornando alla musica classica ma con un’altra consapevolezza, mantenendo sempre in parallelo l’amore per le altre musiche; quindi per esempio suonavo con le orchestre classiche come quella del Teatro Regio di Torino o quella di Sanremo e contemporaneamente iniziavo a frequentare altri musicisti di altri generi: cantautorato (Lalli, Sirianni), rock, jazz con Enrico Fazio, Johnny Falzone, Carlo Actis Dato, fino ad arrivare a Gabriele Mirabassi, con cui -insieme a Pietro Ballestrero- abbiamo realizzato un album (“Kyra”, VELUT LUNA 2012).
A un certo momento nasce l’Orchestra da tre soldi.
Si sviluppò in me il desiderio di proporre la mia musica, così nel 2002 nacque l’Orchestra da tre soldi con cui abbiamo realizzato due dischi: l’omonimo per la DODICILUNE nel 2007 e “Volume II” per ABEAT nel 2013. Un progetto realizzato con persone che arrivavano da vari generi, esattamente come era la mia anima, classica e jazz insieme. Fondata da me, da mio fratello Gianni al clarinetto e da Matteo Castellan alla fisarmonica, parecchi musicisti si sono susseguiti nella formazione che si stabilizzò poi con il primo album.
La scrittura dei brani si sviluppa a a sei mani: Matteo cura le costruzioni armoniche e io e Gianni melodie e strutture; forse è un processo complicato ma alla fine credo che si riesca a esprimere una alchimia particolare. Questa approccio alla scrittura si mantiene inalterato anche per i brani cantati da Elena Urru: abbiamo infatti sempre mantenuto una doppia anima strumentale e vocale. Dovremmo a breve mettere le mani su un terzo lavoro discografico.
Come ti definiresti musicalmente?
Eclettico, artigiano, curioso.
Sei anche molto impegnato nella didattica; ci racconti il tuo approccio?
Provo a mantenere questa impronta multi-stilistica anche nell’insegnamento; la didattica sta mutando radicalmente e cerco sempre di insegnare ai ragazzi che le categorie sono esclusivamente due: musica bella e musica non bella, a prescindere dallo stile. La musica contemporanea deve includere tutti i generi, ed è giusto che si vada in questa direzione; così propongo una didattica trasversale, che rappresenta anche quello che è successo a me quando studiavo: un percorso classico ma anche rivolto ad altri stili, con rimandi continui che magari non riesci immediatamente a cogliere ma diventano evidenti con lo studio e la maturità.
Nel 2006 diventi direttore artistico del Perinaldo Festival.
Sì, siamo arrivati al decimo anno, ma si sviluppò tutto un po’ per caso: lavorai a lungo all’orchestra di Sanremo e non mi piaceva la costa, preferivo l’entroterra più selvaggio con i suoi scorci bellissimi, così scoprii luoghi meravigliosi come Apricale, Perinaldo, Dolceacqua; mi ritiravo qui a studiare, qui preparai il diploma, le audizioni per le orchestre, etc., insomma era una sorta di rifugio. Così mi chiesi perché non provare a organizzare qualcosa in queste terre bellissime, ne parlai con un po’ di amici torinesi e il progetto partì quasi come una scommessa.
Col tempo il festival si è consolidato e adesso compie infatti dieci anni; si chiama “Terra di confine” sia per il luogo (vicini alla Francia, c’è una lunga storia di profughi rifugiati che si nascondevano qui) che per le commistioni musicali.
Adesso si sta un po’ aprendo anche verso la costa, con concerti a Ospedaletti e Ventimiglia. Ricordo che condivido la direzione con Paola Secci e insieme a lei abbiamo creato quest’anno un cartellone molto ricco: Antonio Faraò, Dado Moroni, Gabriele Mirabassi in duo con Roberto Taufic, Nico Morelli con Enzo Zirilli e Alessandro Maiorino, la violinista Eva Slongo…poi naturalmente ci sarà l’orchestra formata anche dagli allievi dei corsi, che proporrà tre produzioni del festival,
Mi piace ricordare che questo festival ha visto nascere tante collaborazioni e incroci di musicisti.
Se avessi una bacchetta magica che cosa chiederesti per il futuro?
Per il festival: creare un coordinamento logistico, una rete dei festival italiani o almeno del nord Italia, che aiuterebbe tutti a fare sistema e a proporsi meglio, abbattere i costi, avere una programmazione che non si sovrappone; per la mia carriera personale in realtà sono contento così, semplicemente mi piacerebbe continuare a insegnare e a suonare!