16 ottobre 2023
Intervistiamo il chitarrista e songwriter napoletano Gio Cristiano, il quale ci racconta “Del blue (ed altre essenze)”, il suo ultimo lavoro discografico, recentemente pubblicato dall’etichetta discografica Aspro Cuore.
a cura di Andrea Parente
Buongiorno Gio e benvenuto su Jazzit. La chitarra è uno strumento che ha radici profonde nella cultura napoletana, ed ha in Pino Daniele il suo più grande esponente. Come ti sei avvicinato ad essa? E come mai hai scelto proprio questo strumento?
Buongiorno Andrea e grazie per il tuo tempo. Sì, in effetti se devo pensare a uno strumento che rappresenti la cultura napoletana, mi viene da pensare alla chitarra. Con riferimento alla musica classica napoletana, nel mio immaginario c’è una chitarra classica ad accompagnare le nostre melodie. A partire dagli anni Ottanta poi, con Pino Daniele, è tutta un’altra storia, la chitarra diventa elettrica e si fonde con un sound più denso, più centrato su elementi ritmici e armonici mutuati dalla cultura afroamericana. La sua musica per me è stata una fonte, come dire… naturale di conoscenza. Da ragazzino suonavo i suoi brani e, senza esserne pienamente consapevole, immagazzinavo elementi di blues, soul, jazz, bossa nova, funk, mixati con le nostre melodie. Rispondendo alla tua domanda, credo che per me la chitarra sia stata una scelta istintiva, per la musica che avevo in testa quando ho iniziato a suonare mi serviva proprio quello strumento, quella magnifica tavolozza di colori a sei corde. Della chitarra, ancora oggi, mi affascina la sua strutturale irrazionalità, la molteplicità di voci che puoi tirarne fuori, la necessità di rompere tutte le possibili geometrie per farla cantare liberamente. Tra i miei ascolti non prediligo chitarristi esclusivamente centrati sullo strumento chitarra, mi piacciono quelli che – sia dal punto di vista improvvisativo che compositivo – scrivono attraverso lo strumento. Penso a Jimi Hendrix, Charlie Christian, Jeff Beck, Bill Frisell, Arto Lindsay, Sonny Sharrock, Carlos Santana, Frank Zappa, Jef Lee Johnson e molti altri; amo anche i chitarristi più puri come George Benson, Wes Montgomery, Pat Metheny e John Scofield. Come si potrebbe farne a meno! Insomma, per quanto riguarda i miei riferimenti, io non sono molto per il mainstream. Naturalmente il mio personale “olimpo” non è fatto solo di chitarristi, adoro Thelonious Monk, Miles Davis, Bill Evans, Wayne Shorter, e John Coltrane è stato il mio primo amore. E poi amo Herbie Hancock. Ti dirò di più: il mio chitarrista preferito è Herbie Hancock [ride – ndr]. È il groove! Nella sua musica riesco a percepire un certo tipo di chitarrismo, questo mi affascina molto. Quell’assolo in Chameleon, per me, è chitarra elettrica! Quello che non è riuscito a fare Hendrix per ragioni di tempo, lo ha fatto Hancock!
Raccontaci del tuo percorso musicale. Come si è evoluto nel tempo?
Ho ascoltato musica in maniera onnivora: dal primo rap di Frankie HI-NGR, i 99 Posse, gli Almamegretta, e tutti gli artisti underground napoletani che facevano parte della generazione di musicisti nel periodo in cui io ero un ragazzino, fino agli ascolti più maturi. Il primo disco che ho acquistato è stato “A Love Supreme” di John Coltrane… lo comprai con i soldi dei “tre giorni” del militare, proprio come segno di protesta a quella costrizione. Come studi, poi, ho fatto il conservatorio, sia per migliorarmi come musicista, sia per avere un riconoscimento… sai bene la difficoltà di essere riconosciuto oggi come un “musicista moderno”. Per quanto riguarda però quella che secondo me è stata la mia vera palestra, ho avuto la fortuna – più che il merito forse – di suonare con dei grandissimi musicisti, ad esempio il vocalist afroamericano Dean Bowman, con il quale abbiamo fatto diversi tour e realizzato un disco nel 2016, “Voodoo Miles”, una sorta di omaggio “strano” ad Hendrix e Miles. Dean è un fratello per me. Ho avuto la fortuna di incrociare Daniele Sepe, che è stato ospite di “Voodoo Miles”. Poi ci siamo ritrovati su “Direction Zappa”, un progetto sulla figura di Frank Zappa, originariamente prodotto dal Sant’Anna Arresi Jazz Festival. Tra gli altri artisti con cui ho collaborato, quelli che ricordo con più piacere sono Reggie Washington e Hamid Drake, loro sono dei grandissimi musicisti e delle “grandi anime”. Insomma, questa è stata la mia vera formazione: più “strada” che “scuola”. Ti dirò di più: da didatta io penso che non esista nessuna possibilità di fare musica chiudendosi in una stanza a studiare per dieci anni, e poi pensare di salire su un palco e mettersi a suonare; il percorso deve essere parallelo: da un lato bisogna studiare e crescere culturalmente, dall’altro è necessario praticare, sporcarsi le mani, provare… a volte vinci, a volte perdi. Ed è proprio questo che ti fa crescere. Poi, se hai la fortuna di incrociare una “grande anima”, ovvero quelle persone che ti danno tanto, anche solo con una chiacchierata da cui percepisci la loro umiltà e la loro tranquillità, già solo questo ti fa crescere, perché hai la straordinaria possibilità di percepire il loro approccio al palco, professionale e spirituale al contempo.
Gli ultimi tre anni non sono stati tempi facili per tutti gli operatori del mondo dello spettacolo, soprattutto per coloro che lavorano con la musica. Cosa hai imparato da questa difficile situazione?
È stata, indubbiamente, un’esperienza tosta, perché per la prima volta, per me che faccio il musicista in maniera esclusiva, ho percepito il rischio vero di trovarmi da un giorno all’altro senza lavoro e con una famiglia da mantenere. Poi, pian piano, mi sono guardato attorno e ho cercato di ragionare per bene, e avendo molto tempo a disposizione, ho scritto parecchio; del resto Luigi Tenco diceva «quando sono felice, esco».
Focus sul presente. Cosa ci racconti in “Del blue (ed altre essenze)”, il tuo ultimo lavoro discografico, pubblicato nel maggio di quest’anno dall’etichetta discografica Aspro Cuore? A cosa allude il titolo?
Il “blue” per me rappresenta tante cose: in primis il mare, che io adoro, e che per me è un centro tonale, un punto di riferimento, di risoluzione importante, dove vado a scaricare tutte le tensioni della vita. Ma è anche il colore dell’illuminazione del mio studio, un tipo di luce che mi trasmette un mood rilassato, quel mood nel quale vorrei trovarmi sempre quando suono, lasciando andare libero l’istinto. Il “blue” è quel sound che io ricerco nella musica che amo, la quintessenza della black music: quella “blue note” che per me non è solo la 4a eccedente, ma anche un modo di interpretare il tempo con uno stato d’animo disteso. Il blue è, anche, semplicemente un colore primario, non ulteriormente riducibile, cioè un’essenza, qualcosa che viene fuori da un processo alchemico. “Del Blue (ed altre essenze)” è un po’ un invito a cercare di riportare il tutto a un processo di semplificazione, senza arrovellarsi inutilmente il cervello. Poi, dopo tutto quello che abbiamo passato negli ultimi anni, non dobbiamo perdere l’essenza delle cose. Del resto ognuno di noi nasce in un modo: c’è chi nasce saggista e chi nasce narratore. Io non ho mai avuto alcun interesse a scrivere un saggio di musica; voglio solo raccontare la mia musica con il mio mood e il mio sound, e stavolta, proprio con questo disco, anche con delle parole.
Come hai sviluppato l’iter narrativo dell’album?
Il disco è come se fosse un grande “concept”, ma non molto “ragionato”, non è un‘opera concettuale, è venuto fuori così. Ci sono due brani – Doje parole blues e Sirena – che si presentano in forma di “canzone”, poi ci sono dei reprise, ovvero la versione strumentale di Doje parole blues e la suite di Sirena (Sirena, Sirena reprise e Terra). Il tema principale viene prima cantato, poi la composizione si dipana fino a una melodia strumentale centrale, che diventa tema per la versione strumentale, la quale viene poi allargata, stravolta e improvvisata. Insomma, è un gioco di citazioni tra l’improvvisazione e la composizione.
Doje parole blues e Sirena sono brani scritti e interpretati vocalmente da te. Quali sono gli argomenti, secondo te, che sposano perfettamente la “napoletanità”?
Io compongo in napoletano perché mi viene naturale farlo. Ti confesso che ho provato a buttar giù delle linee di italiano, ma la lingua napoletana mi è più congeniale: è un po’ come l’inglese, ovvero una lingua un po’ più tronca, più malleabile. Spesso la parola è anche un colore, non ha sempre un significato “chiuso”… e la lingua napoletana non solo è una lingua più “aperta”, ma è una lingua che capiscono tutti, dal livello più basso a quello più alto. Con l’italiano si riescono a esprimere pensieri più complessi, ma è probabile che volessi attenermi a una scrittura più semplice, senza arrivare a nessun tipo di complessità. Difatti, Doje parole blues è nata così, completamente di getto.
Io e te conosciamo bene l’immediatezza della lingua napoletana…
E infatti è come se nella lingua napoletana ci fosse una gamma dinamica intrinseca molto più ampia di quella dell’italiano. Ad esempio, se litigo con qualcuno, litigo in napoletano! [ride – ndr] Così come, allo stesso tempo, le parole d’amore sono diverse se dette in napoletano. Insomma, io la vedo così: il napoletano è la lingua dell’istinto; l’italiano, invece, quella della ragione.
Un discorso strettamente collegato al modo di interpretare le proprie emozioni…
Ed è proprio questo che caratterizza il “concept” del disco: sia le improvvisazioni che le composizioni interamente strumentali, quali Piazza Miraggio e Blue quintessenziale, sono pensate con quella “tranquillità napoletana” – “tomità” – per cui se mi capisci va bene, se non mi capisci, va bene lo stesso, così come diceva Pino Daniele…
Di quali artisti ti sei avvalso nel disco? Cosa ti ha motivato nello sceglierli come collaboratori di questo tuo progetto discografico?
Nel disco sono presenti i miei collaboratori storici, con l’aggiunta di qualche new entry. C’è Angelo Calabrese alla batteria, che già ha fatto parte di “Voodoo Miles”; con lui suoniamo insieme da ormai quindici anni e abbiamo quindi stabilito un sodalizio artistico molto solido, fatto di interplay, groove, fraseggio e anche di una bella dose di follia. La new entry è Marco Ciardiello, mio compagno di classe ai tempi del Conservatorio San Pietro a Majella. È la prima volta che collaboro con un pianista nei miei progetti in studio, e devo ammettere che ha aggiunto quella quarta dimensione che non riuscivo ad avere nel trio, e che cercavo da un po’. Marco ha realizzato cose molto interessanti, sia con il piano acustico che con quello elettrico, il suo è un pianismo molto elegante, alla Bill Evans, che va un po’ a smorzare quei tratti a volte aspri della chitarra elettrica di scuola hendrixiana. Poi c’è Francesco Girardi al basso elettrico, musicista ben centrato sul groove e con conoscenze armoniche molto importanti, che riesce a interpretare al meglio quello che cerco nelle melodie dei bassi. E infine sui cori è intervenuta Roberta di Palma. Questo quartetto interpreta bene quello che è il mio punto di partenza, una sorta di “negritudine napoletana” con cui poter suonare swing, funk, soul, blues, jazz e melodie mediterranee. Questo elemento per la mia musica è assolutamente imprescindibile.
Parallelamente alla tua attività di chitarrista, sei anche un arrangiatore e producer che lavora per diversi artisti e collabora con varie compagnie di produzione musicale. Inoltre, da anni ti occupi di didattica, insegnando chitarra e coordinando le attività del centro di produzione musicale “Aspro Cuore”. Raccontaci un po’ di queste tue attività e di cosa si occupa Aspro Cuore.
”Aspro Cuore” è il nostro quartier generale ed è lì che abbiamo registrato il disco. È un centro di produzione e formazione musicale. Io mi occupo di coordinare il team dei docenti e tengo i miei corsi di chitarra e musica d’insieme. Poi ci sono le produzioni musicali che decidiamo di prendere in carico, lì si va dalla stesura dei testi e delle melodie fino agli arrangiamenti e alle post-produzioni. Aspro Cuore, inoltre, produce spettacoli di musica dal vivo, nei quali coinvolge spesso i propri allievi e artisti, e ha uno studio di registrazione interno, dove i propri allievi fanno esperienza di recording. Perciò chi esce da Aspro Cuore lo fa con una formazione basata non solo sulla conoscenza del proprio strumento, ma anche sulle esperienze di vita vissuta, di musica d’insieme, di live, di concerti e di attività in studio di registrazione; quindi tutto ciò che, teoricamente, dovrebbe servire a un musicista professionista, ovvero trovarsi a proprio agio con il suo strumento su un palco come in studio, in una situazione sia amatoriale che professionale. Sono assolutamente convinto che la responsabilità di stare bene su un palco dipenda non solo dal musicista stesso, ma anche da chi ti porta su quel palco, magari facendoti fare quell’esperienza durante il percorso accademico. Se non ti trovi bene su un palco, la “colpa” è anche di chi non ti ci ha mai portato prima, questo intendo. E per far sì che il musicista cresca da questo punto di vista, occorre una certa gradualità nel trovarsi a proprio agio in un contesto armonico-ritmico. È come se insegnassi a un calciatore come si tira, come si sta a centrocampo, come ci si debba difendere, ma poi non lo lasciassi mai giocare a calcio la domenica. C’è bisogno di una visione completa per fare didattica seriamente.
Ecco… qual è la visione dell’Aspro Cuore?
Formare gli artisti, i quali non devono semplicemente stare in un’aula di un’accademia per anni ed anni a svolgere sempre e soltanto esercizi, ma devono anche sperimentare, attraverso la musica d’insieme, sul palco, tutte le esperienze del live, che sia in un club o da qualche altra parte. La musica è un’arte troppo complessa per poterla relegare soltanto agli aspetti meccanici o a quelli cognitivi; c’è da considerare anche tutta la sfera emotiva, per la quale se non si intraprende l’esperienza del palco, non c’è possibilità di sviluppo né capacità di gestione. E quindi, se questa sfera emotiva non viene adeguatamente sviluppata, quando ci si esibisce dal vivo, si viene completamente investiti da un autotreno di emozioni, con il risultato finale di non riuscire nemmeno a suonare… La vita reale è sul palco! E il lavoro del musicista non è suonare scale o note… ma è emozionare, arrivare dritto al cuore dell’ascoltatore!
Uno sguardo al futuro. Quali sono i tuoi prossimi progetti? Quali sono, invece, gli obiettivi che ti poni adesso?
Ho dei nuovi brani su cui sto già lavorando e che a breve entreranno in produzione, poi con il team di progettazione di Aspro Cuore stiamo realizzando un docufilm sulla nascita di un’opera musicale indipendente, progetto sostenuto dal Ministero della Cultura. Chiaramente, con un disco già fatto, mi piacerebbe poterlo presentare live e avere più occasioni possibili per farlo ascoltare in giro, cercando di avere un feedback dal pubblico. Nello spettacolo live infatti si va a consumare quello che è, per me, il rituale più bello della musica! Se proprio devo farmi un augurio è, quindi, quello di suonare il più possibile. Di sicuro non starò con le mani in mano! [ride – ndr].
INFO