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Vanishing Point: il nostro viaggio attraverso l’Europa. Intervista a Mauro Campobasso e Mauro Manzoni
Photo Credit To © Fondazione Musica per Roma / Foto di Musacchio/Ianniello & Pasqualini

Vanishing Point: il nostro viaggio attraverso l’Europa. Intervista a Mauro Campobasso e Mauro Manzoni

21 aprile 2023

Intervistiamo il chitarrista Mauro Campobasso e il sassofonista Mauro Manzoni, che ci raccontano “Vanishing Point – Music, Life and Friendship On A Motorcycle Trip Through Europe”, il loro ultimo lavoro discografico pubblicato dall’etichetta Parco Della Musica Records.

a cura di Andrea Parente

Partiamo dal passato. La pandemia ha messo a dura prova gli aspetti lavorativi ed esistenziali dei professionisti del settore dello spettacolo. Cosa avete imparato da questa difficile situazione?

Mauro Manzoni: Il periodo della pandemia è stato quanto di più triste si possa mai immaginare. I primi sentori sulla presenza del virus ci sono arrivati mentre suonavamo a L’Aquila con un progetto multimediale sul cinema di Fellini e ricordo che le farmacie cominciavano a riempirsi e non si trovavano più i detergenti per le mani. È stato un periodo duro per tutti, naturalmente, ma per chi fa musica lo è stato anche di più: da quel concerto in poi il non poter suonare dal vivo, non poter provare con i propri amici musicisti, ci ha portato a un isolamento forzato (in particolar modo nel periodo del lockdown). A maggior ragione è stato triste per noi, che avevamo appena registrato a Berlino il nostro nuovo album, e così abbiamo preferito aspettare per farlo uscire, visto che con la pandemia non lo avremmo potuto promuovere e lo avremmo di conseguenza quasi “bruciato”. Ne abbiamo approfittato comunque per mettere mano alla registrazione già fatta, aggiungendo alcune cose in post produzione, qualche sezione fiati in più e migliorando un po’ il tutto, per cui diciamo che non è stato comunque tutto tempo sprecato.

Mauro Campobasso: Sono d’accordo con Mauro. Aggiungo che per quanto mi riguarda ho trascorso la pandemia insegnando on line ai miei studenti del Conservatorio e vivendo per circa due mesi in totale isolamento, lontano dalla mia compagna e da sua figlia. Situazione surreale. Quando poi le maglie delle restrizioni si sono allargate, siamo riusciti a metterci al lavoro per completare il disco e dare più senso a un periodo totalmente assurdo. Imparare qualcosa? Ahimè, purtroppo sì. Più che altro è un po’ come quando accade una qualsiasi cosa o evento che non puoi controllare, devi mettere a fuoco e utilizzare al meglio il tuo istinto per capire come reagire. Alla fine mi sono reso conto che la solitudine non mi spaventasse più di tanto e ringrazio la tecnologia, che è servita per rimanere connessi con amici, colleghi, studenti e familiari. Ho studiato, ho scritto musica, letto libri e guardato e riscoperto moltissimi film. Ogni tanto sgattaiolavo fuori casa e facevo un giro in motocicletta, con la scusa di andare a fare la spesa. Cercare di reagire a un’emergenza, facendo qualcosa di sano per noi stessi, è la miglior medicina. C’è una profonda tristezza per tante persone che non ce l’hanno fatta e la consapevolezza del privilegio di essere in buona salute. Credo che questo sia già un grande insegnamento. Speriamo davvero di non trovarci più in una situazione del genere e di vivere serenamente.

Focus sul presente. Cosa ci raccontate di “Vanishing Point – Music, Life and Friendship on a Motorcycle Trip Through Europe”, il vostro ultimo lavoro discografico, pubblicato nel maggio del 2022 dall’etichetta Parco Della Musica Records? A cosa allude il titolo?

Mauro Campobasso: “Vanishing Point”, in un certo senso, è il seguito ideale del nostro primo disco realizzato insieme, “Punto Zero”, del 2004 (pubblicato dalla DDQ/Soul Note): un viaggio senza tempo, che omaggia ancora una volta il film di Richard C. Sarafian del 1971, “Punto Zero” è il titolo in italiano del film, un’opera unica e strana, un on the road quasi metafisico per certi versi, un film che sovente viene citato per il suo finale anche nelle storie del cinema di fantascienza. Questa volta, con l’idea del viaggio in motocicletta attraverso l’Europa, il titolo ci sembrava ancora più aderente alla nostra musica. Avevo scritto alla vigilia della partenza un brano immaginifico dall’atmosfera un po’ surreale intitolato Vanishing Point, l’ho proposto a Mauro e a lui è piaciuto anche come titolo dell’album. Un titolo solitamente ha una sua bellezza, anche solo per come risuona, oltre che per il suo significato più immediato.

Cosa lo differenzia dal vostro ultimo disco “Ears Wide Shut” (Parco della Musica Records), pubblicato nel 2011 e dedicato a Stanley Kubrick?

Mauro Manzoni: “Ears Wide Shut” è un doppio disco che, a differenza di “Vanishing Point”, ha origine da uno spettacolo multimediale sul cinema di Stanley Kubrick. Dopo aver preparato quel lavoro, ci siamo ritrovati con parecchio materiale musicale da sistemare, cercando di renderlo “discografico”. Si tratta non solo di brani originali, ma anche di pezzi di musicisti classici e contemporanei (North, Ligeti, Riddle, Levant, Heyman, Khachaturian, Strauss, Purcell, Eigen), tutti utilizzati da Kubrick e tutti debitamente arrangiati per il nostro quartetto. “Vanishing Point” invece nasce libero da vincoli e influenzato solo dagli stimoli ricevuti da un viaggio in motocicletta, con gli strumenti accuratamente legati ad essa: città e foreste, autostrade e silenzi. Strada, sole e pioggia (tanta per la verità), vento contrario e visioni laterali, pensando al canovaccio di musica preparato prima di partire e a come arricchirlo una volta giunti a destinazione.

Da dove nasce la vostra correlazione artistica con il cinema?

Mauro Manzoni: Siamo da sempre amanti, oltre che della musica, anche del cinema. In passato abbiamo lavorato, anche separatamente, suonando sopra le immagini, quasi sempre musicando film del periodo del cinema muto. Questa pratica è tipica e spesso affrontata dai musicisti jazz. L’approccio che abbiamo adottato da ormai più di dieci anni, invece, comincia in realtà da un’idea avuta assieme a Stefano Zenni, che ci propose di scrivere non solo musica da giustapporre ad immagini, ma anche di pensare a un vero e proprio montaggio di immagini estrapolate dall’intera filmografia di alcuni registi particolarmente iconici. Ecco allora avvicendarsi spettacoli su Kubrick, Chaplin, Hitchcock, Lynch, Leone e Fellini, nei cui film le immagini sono connesse tra loro in un flusso di montaggio che, attraverso una serie di strategie narrative, fonde in un unico film, in una sorta di grande blob cinefilo, gran parte dell’opera del regista preso in esame. Un omaggio fatto per assonanze, tematiche, colori, situazioni ed emozioni. I film sono miscelati e ripensati in un unico racconto, intervallati da didascalie, voci fuori campo e talvolta anche da performance visive e teatrali.

Piccola digressione temporale. La vostra amicizia è, ormai, quasi trentennale. Ci raccontate come vi siete conosciuti? Cosa vi ha spinto a collaborare insieme?

Mauro Manzoni: Ci siamo conosciuti ascoltandoci reciprocamente in concerti che tenevamo a Bologna e dintorni con i nostri rispettivi gruppi. In quel periodo (fine anni Novanta) a Bologna c’era un discreto fermento musicale, grazie anche alla presenza di molti musicisti che, come Mauro, arrivavano da altre regioni d’Italia per studiare al DAMS. In quel periodo i contatti erano frequenti ed era così facile cominciare a progettare musica insieme. Con Mauro è nata subito anche una bella amicizia e da lì la mia partecipazione al suo primo disco come solista. La presenza poi di Alfredo Impullitti, caro amico comune partecipante a quel disco, non ha fatto che cementare maggiormente la nostra collaborazione, soprattutto dopo la sua prematura scomparsa. Dopo quel trauma siamo stati fermi musicalmente per almeno un anno, incapaci di pensare e progettare musica. Poi un bel giorno ci siamo resi conto che avremmo dovuto scuoterci e abbiamo così registrato il nostro primo disco a nome congiunto. Un disco in duo con molta elettronica, intitolato “Punto zero”, visionario e libero, collegato a doppio filo con il nostro ultimo “Vanishing Point”.

Mauro Campobasso: Con Mauro Manzoni ci siamo incontrati nei primi anni Novanta all’incirca, per iniziare a lavorare insieme nel 1998. Personalmente ero un suo grande ammiratore, visto che lo avevo ascoltato più volte nei teatri e club bolognesi, ancor prima di conoscerlo di persona. Ci presentò il compianto Alfredo Impullitti, che mi consigliò di chiamarlo nel mio primo gruppo “serio” per il mio primo disco, che incisi per la DDQ/Soul Note, “Love and Lies” (2000). Poi ci siamo conosciuti sempre meglio, frequentati anche al di fuori della musica, stabilendo un’ottima empatia che, nel corso degli anni, è diventata un’amicizia davvero importante, tanto da trasformarsi in una sorta di fratellanza musicale, in cui si sperimenta ogni nuova idea insieme con grande piacere, curiosità e passione, dalla scrittura fino agli ascolti musicali.

© Fondazione Musica per Roma / Foto di Musacchio/Ianniello & Pasqualini

Cosa vi ha motivato, inoltre, a scegliere il contrabbasso di Stefano Senni, la batteria di Walter Paoli e la tromba di Andrea Giovannitti, nonché le voci di Arianna Cleri, Gaia Mattiuzzi, Federica Orlandini e Claudia Pantalone, insieme ai testi originali scritti dalle cantanti e compositrici Costanza Alegiani e Marta Raviglia? Come si sono incrociati tutti questi diversi percorsi artistici?

Mauro Campobasso: In primis parto da Gaia Mattiuzzi, cantante molto tecnica e poliedrica, con un grande carico espressivo, che collaborò con noi per la prima volta a partire dal 2016 per un nostro sestetto, che omaggiava Sergio Leone in uno spettacolo commissionatoci da Pescara Jazz; Gaia è mia amica da oltre un decennio, ed è stata anche la cantante del nostro lavoro multimediale su Fellini del 2019 e quindi era logico e naturale che partecipasse al nostro nuovo disco. Ci siamo dati appuntamento con lei e con Walter Paoli a Berlino, per poter concepire e lavorare all’album insieme. Purtroppo non siamo riusciti a terminare a Berlino tutte le parti che ci eravamo prefissati e nel frattempo Gaia stava per trasferirsi proprio nella capitale tedesca e quindi vedersi a Bologna non era proprio così facile. A quel punto abbiamo coinvolto anche Federica Orlandini e Arianna Cleri, due straordinari giovani talenti (Arianna è una mia brillante studentessa al Conservatorio di Pesaro e Federica, in un certo senso, è stata una mia vera e propria pupilla, visto che l’ho conosciuta e incoraggiata fin da giovanissima nell’intraprendere lo studio del jazz in Conservatorio a Bologna), che hanno contribuito in maniera davvero importante al disco con le loro bellissime voci. Claudia Pantalone invece è subentrata un po’ più tardi, in post-produzione avanzata, facendoci uno straordinario regalo, sovraincidendo un intero coro da sola, sotto i lead di Gaia per il brano d’apertura Im lauf der zeit, e delle parti vocali aggiunte nel pezzo finale, scritto sempre da Mauro Manzoni, dal titolo Rail Crossing Road. Stefano Senni, con il quale abbiamo suonato tantissimo a partire dalla fine del 2007, è venuto a registrare nel mio home-studio di Bologna delle parti di contrabbasso davvero intense. Il basso elettrico invece è stato suonato da me tra Berlino e Bologna. Riguardo ai testi, è stato tutto molto naturale. Con Marta Raviglia c’era già una frequentazione, a partire dal 2012, per dei concerti e progetti concepiti insieme, che mi avevano portato a chiederle di scrivere delle liriche su un paio di mie composizioni, con dei risultati veramente notevoli, tra cui un testo che amo davvero tanto per il brano River’s Bed, non collegato al nostro viaggio, ma utilizzato nel disco con il titolo di Sentimental Dissidence. Io e Costanza Alegiani ci eravamo invece incrociati fugacemente a Roma qualche anno fa, in occasione delle prove per un mio concerto all’Auditorium Parco della Musica, ed era rimasto il desiderio di collaborare insieme; a Costanza ho chiesto se volesse scrivere tre testi anticipandole luoghi, sensazioni e idee relativi a questo viaggio che io e Mauro volevamo compiere. Lei ha acconsentito e ha creato un mondo immaginario davvero magnetico, anticipando e incrementando delle visioni di viaggio che, in un modo o nell’altro, ci hanno ispirato nelle registrazioni.

Il disco è incentrato sulle vostre musiche, con la tua produzione e con una visione dell’arrangiamento condivisa a tre con Walter Paoli. Cosa ha significato questo a livello timbrico ed espressivo?

Mauro Campobasso: Rispondere non è facile. Anche perché quando si lavora a un progetto di gruppo, non sai più dove finiscono le tue idee e iniziano quelle degli altri. Diciamo che nel mio caso ho ricoperto una sorta di ruolo di produttore artistico e arrangiatore, che mettesse in connessione le idee di tutti, cercando di far sì che ognuno di noi potesse ritrovare la propria identità. A parte Mauro Manzoni, con il quale c’è un confronto quasi quotidiano, in fase di post produzione è stato dedicato uno straordinario sforzo al missaggio e alla scelta delle sonorità con Walter Paoli (l’idea del mix nella parte finale di Black Forest è sua), con il quale abbiamo fatto le ore piccole a definire particolari, che ci hanno portato a soluzioni creative davvero efficaci e non proprio usuali. In più, ho lavorato a molte rielaborazioni e mascheramenti del suono, sia con i miei effetti per chitarra (analogici e digitali), che con il mio Mini Moog e in più con emulazioni su sequencer, sia in tempo reale che in post-produzione. Le manipolazioni elettroniche che ho realizzato per Im laf der zeit di Mauro Manzoni e per la mia Berlin Underground, mi rendono particolarmente orgoglioso.

© Fondazione Musica per Roma / Foto di Musacchio/Ianniello & Pasqualini

Il disco è composto da nove brani originali, con l’ispirazione del viaggio in moto che permea tutto l’album. Ci racconti l’iter compositivo di questi brani?

Mauro Campobasso: Era tutto già nella nostra mente, nella fantasia di un viaggio (reale) da compiere e con l’arduo compito di avere dei brani pronti nel minor tempo possibile. Alla fine abbiamo pensato ad elementi scarnificati da una vera e propria idea di arrangiamento nel senso classico del termine e abbiamo utilizzato una serie di composizioni già pronte (come Sentimental Dissidence, per esempio). A circa due mesi dalla partenza abbiamo compiuto un duro lavoro di pre-produzione, scegliendo il materiale da portare in studio a Berlino, lasciando anche da parte per il futuro alcune cose che avevamo preparato. Ci siamo proposti vicendevolmente dei brani, cercando di scegliere i più belli e funzionali alla coerenza di ciò che si voleva realizzare. Alla base c’era la ricerca di una musica con un impatto il più possibile visionario o impressionista per certi versi. Talvolta l’influenza è arrivata da pure suggestioni di suoni ed effetti, che abbiamo usato come canovacci a Berlino. Per quanto mi riguarda questo disco è il mio personale Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta. In questo caso, visto che le nostre motociclette erano perfette (tranne una frizione un po’ surriscaldata di Manzoni a metà percorso), la manutenzione era tutta dedicata alla musica, che pian piano ha raggiunto una sua dimensione ideale.

Motociclette BMW, storica amicizia, tappa a Berlino, collettività artistica, sono gli ingredienti che permeano il disco. Ci raccontate come sono andate le registrazioni? Avete qualche aneddoto particolare da narrarci?

Mauro Manzoni: Le registrazioni sono andate via piuttosto lisce, la sala di registrazione (che avevamo scelto precedentemente, dopo un’attenta analisi) ci ha aiutato molto in questo compito. Il Jazzanova Recording Studio a Berlino si presenta, oltre che di un livello tecnico eccellente, come particolarmente accogliente; quando si è fuori casa e lontani dall’Italia, si ha bisogno anche di sentirsi “coccolati” e di avere una cucina dove prepararsi un buon caffè, o un salottino dove poter fare due chiacchiere, che nei momenti di pausa aiutano a sentirsi più a casa. Gli aneddoti sono piuttosto esterni allo studio. Ricordo una sera che, terminata la registrazione, abbiamo inforcato le moto in fretta e furia perché il cielo non prometteva nulla di buono. Abbiamo attraversato Berlino sotto un vero e proprio diluvio; ricordo la rotonda della “Colonna della Vittoria” (quella del famoso angelo de Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders), attraversata con le moto che sembravano motoscafi. Io portavo Walter Paoli e Mauro Campobasso portava Gaia Mattiuzzi. Siamo arrivati in albergo con niente dei nostri vestiti (anche intimi) che non fosse fradicio. Tutto si è risolto comunque in allegria, con una cena ristoratrice e un bel po’ di birra tedesca a riscaldare la serata.

Mauro Campobasso: Mauro mi ha soffiato la storia più bella. Per vendetta, io posso parlare della mia disperazione nel sopportare le sue lamentele nelle soste sotto la pioggia in viaggio per Berlino, oppure di quando alla vigilia della ripartenza stavo per volare a terra con la moto carica per colpa di un bus che mi ha tagliato la strada a un incrocio in piena Berlino, poco prima dell’Alexanderplatz. Episodi che oggi diventano anche un colore per le nostre storie e memorie, ma che sul momento sono state davvero terrorizzanti, come la storia raccontata da Mauro.

Ogni musicista ha una sua visione di jazz, in base agli ascolti, agli studi e alle esperienze fatte. Qual è la vostra visione di jazz?

Mauro Manzoni: Per me “jazz”, al di là di ogni retorica, significa innanzitutto “libertà”. L’improvvisazione in se stessa è libertà. Non c’è niente di più bello e affascinante che, una volta terminata l’esposizione del tema o comunque delle parti scritte, arrivare al momento in cui si parte con l’improvvisazione. Che sia su una struttura codificata, oppure totalmente libera, non fa differenza, il sentimento di libertà e di assoluta concentrazione interiore che si ha in quel momento è, per mio conto, la cosa più bella che si provi nel suonare jazz. Ci si ritrova a galleggiare in una specie di vuoto, dove l’improvvisazione diventa come un discorso, con un inizio e una fine, e si è concentrati solo sulla propria interiorità e sull’interplay che si crea con gli altri musicisti. In quel momento non esiste più nient’altro, solo la parte razionale e quella emotiva che si confrontano per cercare, in ultima analisi, di emozionarci, perché solo così si può sperare di emozionare chi ci ascolta.

Mauro Campobasso: Esprimere la propria visione sul jazz è davvero difficile. Farlo in una sola domanda è come cercare un ago in un pagliaio. Personalmente se dovessi circoscrivere l’argomento relativamente a quest’ultimo disco, penso che in esso possano trovarsi diverse chiavi per interpretare ciò che vedo in questo mondo. Una musica straordinaria che cambia e che si evolve, nutrendosi di commistioni con altre musiche. “Vanishing Point” è un po’ la cartina di tornasole di questo sentire. Si passa da Ligeti e Schubert a Ornette Coleman, fino a Eric Dolphy e ai Radiohead, attraverso una lente personale che mi permette di mantenere alto il profilo e l’approccio a questa musica, senza perderne l’essenza e la purezza. Mi piace il rigore del linguaggio della tradizione jazzistica e della regola armonica, ma anche la capacità di alienare tutto in un attimo. Ecco, per me il jazz è una sorta di libertà vigilata in un territorio pericoloso e sublime al tempo stesso.

© Fondazione Musica per Roma / Foto di Musacchio/Ianniello & Pasqualini

Uno sguardo al futuro. Quali sono i vostri prossimi obiettivi e progetti? Intendo sia in duo, che personali.

Mauro Manzoni: Non sono una persona a cui piace fare troppi programmi. Le cose da fare nascono un po’ così, spontaneamente. Sicuramente cercheremo di promuovere il disco più che potremo e poi stiamo preparando un nuovo spettacolo multimediale (ormai siamo diventati piuttosto esperti in questo genere di lavori) sulla commedia americana, che porteremo nei teatri a partire da novembre e che si intitolerà Non ci resta che ridere. Poi appena avrò un po’ di tempo cercherò di scrivere nuova musica per un eventuale nuovo progetto con Mauro Campobasso, o magari con altri compagni di viaggio. Chissà…

Mauro Campobasso: Insieme a Mauro Manzoni (come accennava lui sopra) abbiamo in cantiere un nuovo progetto multimediale commissionato dal Cidim – Comitato Nazionale Italiano Musica, dedicato alla commedia americana. Faremo una cosa molto leggera e divertente, e questa volta in leadership congiunta con Walter Paoli. Personalmente invece registrerò molto presto, dopo tanto tempo, un nuovo progetto a mio nome, cercando di ritrovare una vena più personale e intima, rispetto ai lavori a firma congiunta con Mauro, ma anche rispetto a diversi progetti che ho realizzato negli anni come arrangiatore per altri musicisti. Dopo tanti anni di collaborazione a due si diventa un po’ simbiotici e credo che uno stacco dal mio sodale non possa che far bene ad entrambi. Sicuramente tra qualche anno si realizzerà un nuovo capitolo musicale insieme, magari con un viaggio in motocicletta fino ad Oslo. Chi può dirlo?

INFO

www.auditorium.com/it/etichetta-pmr

 

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