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Un viaggio musicale senza confini. Intervista a Luca Ciarla
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Un viaggio musicale senza confini. Intervista a Luca Ciarla

14 dicembre 2021

Luca Ciarla è un violinista fantasioso e creativo che incrocia diversi linguaggi musicali per delineare un suo percorso artistico originale e innovativo, bilanciando sempre composizione e improvvisazione, tradizione e contemporaneità, creando così una sua cifra stilistica unica e particolare. Lo abbiamo intervistato per scoprire la sua storia e la straordinaria attività concertistica che lo ha portato a esibirsi in festival e rassegne in quasi settanta paesi del mondo.

di Arianna Guerin

Volevo partire da una considerazione di carattere prettamente editoriale e giornalistico. Capita sempre più spesso che ci ritroviamo, come JAZZIT, ad avere difficoltà nel raccontare, comprendere e intercettare tutto ciò che accade intorno a noi a livello concertistico e discografico. In quest’epoca liquida, con la dissoluzione del supporto e la socializzazione delle esperienze, ci sono musicisti – e tu sei un caso emblematico – che rischiano di sfuggire ai nostri ‘radar’. Come possiamo, a tuo avviso, risolvere questo limite?
Mi rendo conto che sia quasi impossibile monitorare con efficacia tutto quello che accade nel mondo del jazz, in Italia e all’estero, su disco, nelle sale da concerto e ora anche online. Il web ci permette di essere in contatto facilmente con un pianista indonesiano trasferitosi in Groenlandia, ma allo stesso tempo amplifica enormemente il parterre, un fattore comunque positivo del resto. Ci sono news però che hanno un loro peso specifico. Da tanti anni ormai suono con regolarità a livello internazionale e quest’anno ho raggiunto il traguardo dei settanta paesi nel mondo dove mi sono esibito a mio nome, senza una major o management internazionale alle spalle. Solo in nord America ho ricevuto inviti dal Montreal Jazz Festival, Twin Cities Jazz Festival, Rochester Jazz Festival, Ottawa Jazz Festival, DC Jazz Fest di Washington, San Jose Jazz e decine e decine di rassegne e club.

Photo Credit to Massimo Cappelleri

E aggiungo. Se JAZZIT è nato venticinque anni fa con una direzione editoriale fondata sull’uscita discografica, intesa come ‘testo’ attorno al quale compiere le scelte editoriali, ci sono sempre più musicisti, come te in particolare, con un’attività discografica rarefatta e al contrario molto attivi a livello concertistico. Anche sotto questo profilo, secondo te, come potremmo garantire la necessaria valorizzazione?
La scelta di selezionare in base alle uscite discografiche è comprensibile, ma è anche vero che da sempre ci sono musicisti o progetti che su disco rendono meno o artisti che non registrano con facilità. Non vivo serenamente la produzione di un disco, lo ammetto. Da pochi anni trovo più semplice e rassicurante realizzare singoli, come nel caso di Take Five o del brano originale Des/Aria, registrato durante il lockdown in un concerto online per il Melbourne Jazz Festival. Tornando alla tua domanda, credo che le storie e i racconti che si celano dietro un disco, un concerto o un tour siano la parte più profonda e avvincente del nostro mondo e forse non sempre riescono ad emergere. Per esempio potrei raccontarti della prima esibizione al Java Jazz Festival con il mio quartetto, nel 2012, con Vince Abbracciante alla fisarmonica, Nicola di Camillo al contrabbasso e Francesco Savoretti alle percussioni. Ci invitarono anche per la jam e quando scendemmo nella hall, alla vista di quanto stesse accadendo, ci tremarono le gambe. George Benson presentava la jam, semi-ubriaco (toglierei il semi), sul palco c’erano una mezza dozzina di alcuni tra i più grandi jazzisti del pianeta e in sala, ad ascoltarli, un’altra cinquantina abbondante. Si tratta di uno dei più grandi festival in circolazione, in termini proprio di quantità, che io abbia mai visto, una specie di succursale del jazz nordamericano in Indonesia. Dopo l’ennesimo solo di Joey DeFrancesco decidemmo che non fosse il caso, sarebbe stato troppo emozionante!

Arriviamo a te. Il tuo strumento, il violino, sebbene legato a repertori classici, ha straordinari maestri di stile anche nel mondo del jazz. Ci racconti il tuo rapporto con questo strumento e i tuoi riferimenti stilistici?
Avevo otto anni quando dissi ai miei genitori di voler suonare il violino, dopo averne visto uno dai miei nonni. Sono stato di parola! È uno strumento impossibile da vivere senza un coinvolgimento totale; troppo intenso e profondo, quasi una seconda voce. Sono cresciuto adorando Bach, Jarrett, Monk, Gismonti, Ravel, Prokofiev, Zappa, Pieranunzi; ho amato sin da subito le musiche del bacino del Mediterraneo, che sento vicine, la tradizione indiana, quella balcanica e quella popolare italiana. Stranamente sono arrivato al rock in seguito, quasi da adulto. Ovviamente ho ascoltato e amato anche Grappelli, Lockwood e tutti i grandi maestri del violino jazz, ma non sono mai stato un grande fan del gypsy jazz o del violino in un contesto mainstream.

Photo Credit to Massimo Cappelleri

Cosa ami di più di questo strumento?
Le tantissime sfumature timbriche e la polifonia, per quanto complessa da realizzare. Sento però il bisogno di un’evoluzione dello strumento, simile a quella che la chitarra e il pianoforte hanno avuto negli ultimi decenni. Siamo ancora indietro nell’uso dell’elettronica, di nuove tecnologie e possibilità, nel trovare una buona integrazione tra il suono acustico e quello elettrico e, aggiungerei, tra l’uso con l’arco e quello con le dita della mano destra.

Photo Credit to Paolo Lafratta

Cosa significa esprimersi con il violino su territori legati all’improvvisazione e alla sperimentazione?
Mi piace tantissimo suonare in duo, con composizioni originali ma anche quasi senza nessuna guida, totalmente libero. Non è facile trovare il partner ideale, ma se accade il violino, con l’aggiunta dell’elettronica e della mia voce, mi permette di avere un’ampia gamma di suoni e scelte a disposizione. Ringrazio di cuore i colleghi con i quali ho condiviso o condivido questo percorso come Luciano Biondini, Luigi Tessarollo, Chris Jarrett, Enrico Zanisi, Antonio Forcione e, da poco, Simone Graziano.

Per l’appunto, sperimentazione e innovazione dei linguaggi. Proprio tu ne sei un riferimento su scala globale, grazie ai tuoi progetti che incrociano più generi, tra l’acustico e l’elettrico, come “Mediterranea”, “solOrkestra” e “Jazz Violin 2.0”.
Per me il jazz è la casa di tutte le musiche, un luogo magico dove improvvisazione, scrittura, sonorità acustiche ed elettronica, ricerca e arrangiamento, sgomitano amichevolmente per trovare un equilibrio creativo ed emozionale. Una musica che nasce e si rigenera nell’incontro/scontro con tutto ciò che la circonda. Per questo per me nascere a Termoli (Molise) e amare il jazz significa relazionarmi anche con i suoni del Mediterraneo, con i Balcani, con la tradizione popolare italiana, ebraica, araba, spagnola. Mi piace l’idea di creare musica quasi a chilometro zero anche se, avendo vissuto per tanti anni negli Stati Uniti e a Hong Kong, faccio ancora confusione!

Photo Credit To Andrea Angelucci

Tu sei uno dei pochi musicisti italiani che è protagonista di cartelloni concertistici internazionali. Come sei riuscito a realizzare questo straordinario obiettivo? Quale pensi sia la chiave di questo successo a suo modo unico?
Probabilmente l’essere fortemente italiano e mediterraneo, anche nella scelta delle formazioni. Non potrò mai dimenticare il concerto al Twin Jazz Festival in Minnesota. Suonavamo prima dei Bad Plus, con Joshua Redman; stesso palco, doppio set. Alla fine del terzo brano, fortemente etnico e piuttosto “esplosivo”, saltarono tutti dalla sedia per una standing ovation, dopo appena quindici minuti di concerto, praticamente all’inizio. Li avevamo sorpresi con qualcosa di completamente diverso dal solito, entusiasmandoli. L’identità è un fattore molto importante all’estero e nel mio caso è il frutto di una visione naturale che ho sempre avuto.

Photo Credit To Paolo Soriani

Ciò che ti distingue è anche che sei indipendente nel vero e proprio senso della parola, perché agisci attraverso una tua agenzia, la Violipiano. Cosa significa questo per te?
Vivevo e studiavo negli Stati Uniti quando iniziai a pensare di fondare una mia casa di produzione. Gli agenti, i manager e i critici musicali che incontravo in quel periodo mi consigliavano di concentrarmi solo su uno strumento (suono anche il piano), sul mainstream o il jazz contemporaneo, di lasciare insomma qualcosa per strada per fare carriera. Decisi allora di lasciar loro per strada e mi trasferii ad Hong Kong, dove nel 2001 fondai la Violipiano Music. Non è stata una scelta semplice, ma sicuramente mi ha aiutato a scardinare un sistema ancora suddiviso in compartimenti stagni. I generi musicali sono una necessità del mercato, non del nostro orecchio. Il jazz non dovrebbe essere uno stile di musica, ma solo un modus operandi. Forse in tanti sono d’accordo con me a parole, ma in realtà la situazione è ancora molto ingessata, soprattutto in Italia. Da pochi anni la Violipiano ha aperto le porte anche ai miei compagni di viaggio e colleghi, che stimo particolarmente; credo sia giusto condividere con loro il lavoro di tanti anni.

Photo Credit to Paolo Lafratta

Cosa ti affascina di più del panorama musicale contemporaneo? Ci sono dei musicisti o delle scene artistiche a cui guardi con maggiore interesse?
Ultimamente seguo sopratutto progetti artistici più ampi, non necessariamente solo musicali, anche perché con la mia compagna, l’artista visiva Keziat, abbiamo creato una performance multidisciplinare in continua evoluzione. Mi piacciono molto le creazioni dell’artista sudafricano William Kentridge, gli spettacoli stupefacenti dei francesi Claire Bardainne & Adrien Mondot e ho amato le musiche e l’utilizzo dei musicisti in scena nel film islandese La Donna Elettrica. In Italia nell’ambito musicale ammiro particolarmente Gabriele Mirabassi, Paolo Fresu, Rita Marcotulli, Luciano Biondini, Paolo Angeli, Daniele Di Bonaventura, Enrico Zanisi, Vince Abbracciante, Giovanni Sollima, ma sicuramente dimentico qualcuno. Tra i violinisti, italiani e non, ho una stima infinita per Mario Forte. Vorrei aggiungere che da pochi mesi ho creato un gruppo online, “Archi Liberi”, per dar vita finalmente a una community di strumentisti ad arco innovativi; c’è ancora tanto da fare per far sentire la nostra voce e per riuscire a sostenerci.

Su cosa stai lavorando in questi ultimi mesi?
A un nuovo disco, possibilmente senza soffrire. Ci riuscirò?

INFO

www.lucaciarla.com

 

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