
Leandro “Gato” Barbieri
(Rosario, 28 novembre 1932 – New York, 2 aprile 2016)
«Gato l’ho conosciuto durante una jam session, se non ricordo male a casa di Lelio Luttazzi. Per fortuna suonammo Giant steps di Coltrane. Nel disco originale c’era Tommy Flanagan, un pianista per me accessibile e non il più avanzato McCoy Tyner. Gato era già oltre, nella stessa aura modale di Coltrane, mentre io facevo i miei accordi che non c’entravano molto con quella musica così nuova.»
(Franco D’Andrea)
«Incontrai Gato Barbieri la prima volta nel 1965, era appena arrivato a Roma. Lui già suonava benissimo ma non lo conosceva nessuno. Iniziò a lavorare molto presto, ma solo come musicista negli studi della Rai. Non ricordo esattamente quando ci incontrammo, so che dovevo registrare due colonne sonore e avevo bisogno di bravi musicisti in fretta e quindi lo ingaggiai. Gato aveva un aspetto gradevole, era calmo e gentile. A quell’epoca era facile scambiarlo per un impiegato, con i capelli corti perfettamente tagliati e sempre vestito con eleganza, senza quel cappello nero che tutti oggi conosciamo come caratteristica del suo look.»
(Piero Umiliani)
«Vedemmo un ragazzo che sembrava piccolo, bruno, con gli occhiali, un’aria timida e del tutto normale. Tirò fuori un sassofono vecchissimo, appannato e tenuto su con pezzi di spago e di scotch. […] Ci guardammo con aria interrogativa, intanto quello imboccò il sassofono e fece una nota. Ci guardammo di nuovo, ma questa volta con aria esclamativa: era una nota perfetta, con un volume e una sonorità eccezionali. Dopo quell’unica nota il ragazzo rimase tranquillo, assorto, sospeso sulla gente, ascoltando gli altri musicisti che avevano cominciato a suonare. Aspettò immobile che gli lasciassero fare il suo assolo – noi eravamo già un po’ eccitati dal fatto che non avesse riscaldato lo strumento, perchè solo chi ne ha una grande padronanza può suonarlo senza fare prima un po’ di note e di scale – e quando venne il suo turno… cambiò tutto: l’ambiente, i musicisti, il clima, noi. Era di fronte a noi una voce di sax tenore come non ne avevamo mai sentito finora, un torrente inesauribile di idee, un soul incredibile… Faceva pensare a Coltrane, ma anche a qualcosa di diverso, difficile da definire e individuare.»
(Umberto Santucci – tutto l’articolo si può leggere qui)