18 febbraio 2020
In occasione dell’uscita dell’album “Plastikwind” per l’etichetta Nau Records, abbiamo incontrato il pianista Umberto Petrin.
Di Nicola Barin
Qual è il tuo rapporto con l’improvvisazione?
Ho affrontato, nel tempo, molti generi di improvvisazione. Molti, tra coloro che appartengono alla mia generazione, hanno appreso con la pratica (o “sul campo”) le varie tecniche, ricavate dai dischi, trascrivendo le improvvisazioni o imitando lo stile dei propri musicisti di riferimento e perfezionando successivamente tutto questo sul palco, durante le serate nei vari club, sfruttando l’opportunità di esibirsi con musicisti più esperti. Occorre aggiungere che negli anni ’80, quando ho iniziato la mia attività nella musica jazz, i locali erano numerosi e c’era comunque una selezione naturale per accedere ai palchi più prestigiosi, come – ad esempio – quello del Capolinea di Milano.
Ho affrontato i generi più tradizionali, come il dixieland, lo stride, e quindi il bebop e via dicendo, fino ad arrivare al free e all’avant-garde. Nel tempo, attraverso le innumerevoli esperienze anche a fianco dei maestri di questa musica (come ad esempio Lee Konitz, Steve Lacy, Tim Berne o Cecil Taylor, per citarne solo alcuni) ho maturato una mia personale cifra stilistica.
Non ho mai perso il contatto con la musica erudita o “colta”, come a volte la si definisce in modo alquanto sommario. Ho sempre approfondito i miei autori preferiti, particolarmente quelli del periodo Barocco e del Novecento. Tutto poi è confluito in un linguaggio espressivo che mi appartiene e in cui mi riconosco perfettamente.
Per giungere a questo obiettivo mi sono servito della scrittura. Pur avendo praticato, per un certo periodo, anche l’improvvisazione radicale, ho maturato la necessità di agire su un materiale tematico prestabilito; scrittura e improvvisazione, per quanto mi riguarda, devono procedere in modo unitario, per relazioni o elaborazioni; non ho mai pensato alle scale o ai pattern, che comunque conosco, ma che considero come un freno alla costruzione del discorso improvvisativo; ho sempre dato invece molta importanza alla narratività, ma di questo parlerò dopo.
È capitato che qualcuno sostenesse che io suonassi free, semplicemente perché non riusciva a dare una corretta definizione a questo genere, né a cogliere le peculiarità del mio linguaggio. Io, per la verità, non suono free. Free è solo un termine del quale alcuni si servono per indicare qualcosa che non riescono a catalogare o inquadrare in qualche scaffale della mente. Questo non è corretto.
Amo Anton Webern, Paul Hindemith, Christian Wolff, Milton Babbitt quanto James P. Johnson, Earl Hines o Mal Waldron.
Faccio un paio di esempi. Per un certo periodo di tempo ho suonato in duo con Lee Konitz e affrontavamo temi di Skrjabin (vedi il disco “Breaths and Whispers” del 1996). Da lui imparai che l’improvvisazione è un procedimento che tende ad ampliare le linee indicate dal tema. I temi di Skrjabin sono complessi, sia melodicamente che armonicamente. Più di recente, ho avuto l’occasione per riprendere lo stesso autore insieme a Gianluigi Trovesi, col quale suono in duo da oltre vent’anni, in un album Dodicilune dal titolo “Twelve Colours and Synesthehic Cells” (2017). In questo album abbiamo trattato i materiali tematici partendo da un’altra prospettiva. È stato un lavoro assai avvincente e indubitabilmente diverso da “Breaths and Whispers”.
Per fissare le mie peculiarità stilistiche ho anche registrato due album in solo, che soprattutto all’estero hanno ottenuto numerosi apprezzamenti, “A Dawn Will Come” (2011) e “Traces and Ghosts” (2014), entrambi pubblicati dall’etichetta inglese Leo Records. Da questi dischi, lo dico con piacere, ho anche ricavato un buon numero di concerti.
Come è nato il trio con Paolino Dalla Porta e Patrice Heral?
Da molto tempo non tornavo al trio. Negli anni ’90 ne avevo costituito uno con Danilele Patumi al contrabbasso e Tiziano Tononi alla batteria. Con loro pubblicai “Wirrwarr” (1996), che ebbe un certo seguito anche all’estero. Il titolo era ricavato da una raccolta poetica di Edoardo Sanguineti, che si mostrò contento per questa scelta (illustrerò forse in seguito il mio legame con il mondo della poesia).
Dopo breve tempo, cambiai la formazione inserendo Giovanni Maier al contrabbasso e Roberto Dani alla batteria. La mia idea, fin dall’esperienza di “Wirrwarr”, era quella di cercare una sonorità del trio classico piano-basso-batteria che si sganciasse dai consueti modelli di riferimento, che per noi erano la linea Bill Evans-Keith Jarret da un lato e le avanguardie americane ed europee dall’altro. Subivo il fascino di un album poco conosciuto di Cecil Taylor, “In Florescence” (1990), registrato con Gregg Bendian e William Parker.
Partii da quel tipo di impostazione, ma inserendo una scrittura piuttosto densa, che definisse il carattere del trio e allo stesso tempo indicasse percorsi improvvisativi anche agli altri musicisti, la scelta dei quali era finalizzata alla realizzazione di un preciso tipo di suono. Il basso di Maier aveva solidità e matericità, mentre Dani portava dinamiche multicolori giocando anche sui silenzi, con grande spinta ritmica quando richiesta e sempre attento alla qualità del suono. Insieme a loro incisi “Ellissi”, che ebbe un notevole successo (l’ospite era Tim Berne) e quindi, all’inizio degli anni 2000, “Voir Loin”, in cui avevo invitato anche un amico, il grande poeta Milo De Angelis, per leggere un suo testo a me particolarmente caro.
Passata quell’esperienza, che durò diversi anni, mi dedicai maggiormente al piano solo o ad altri progetti in duo o trio che non prevedevano il basso, fino ad approdare a “Plastikwind”; su invito della NAU ho ripreso l’idea del trio, rimodulandone i parametri e ponendomi il quesito riguardante i musicisti da coinvolgere. Negli ultimi anni avevo occasionalmente suonato con Paolino Dalla Porta, che oltre ad essere uno straordinario musicista è anche un caro amico da tanti anni. Mi occorreva poi la batteria, ma mi interessava qualcuno che fosse in grado di dosare con misura anche l’elettronica.
Mi ricordai che anni prima, durante il festival romano “Una striscia di terra feconda”, una rassegna affascinante diretta da Paolo Damiani e Armand Meignan, avevo suonato insieme a Patrice Heral, in occasione di un quartetto composto, oltre che da noi, da Maria Pia De Vito e Gianluigi Trovesi. Ricordavo di essermi trovato perfettamente in linea con Patrice e quindi lo invitai. Lui accettò immediatamente, con entusiasmo.
Avevo quindi gli elementi ideali per la realizzazione del tipo di suono che immaginavo per il nuovo trio. Anche in questo caso la scrittura è fondamentale. Inoltre, con musicisti di quel valore, non occorre neppure spiegare granché, perché già alla prima lettura dei brani sanno già cosa fare. Grazie a queste capacità, la potenzialità del trio si amplia e permette di saltare rapidamente da momenti di rarefazione ad altri di intensità che raggiunge il “metal”, come accade in American Psycho, così come temi scritti in cui è la sola parte melodica che deve tracciare l’improvvisazione, vedi il brano SP3509, che corrisponde alla sigla dell’aereo che mio nonno Umberto pilotava durante la Prima Guerra Mondiale.
Mi ha incuriosito la foto della copertina dell’album, puoi parlarcene?
Con molto piacere. La foto ritrae Umberto Petrin, che è (era) mio nonno, scomparso nel 1940. In quella foto sta per partire sul suo aereo SP3509 (che è, come già detto, anche il titolo di un brano dell’album) per una missione durante la Prima Guerra Mondiale. Possiedo ancora il casco che indossa nella foto.
Quell’immagine è allegorica e può avere diversi significati. Quello più evidente è metaforico, la partenza per una nuova avventura, oppure la caparbietà di chi riparte dopo ogni battaglia. Nonno Umberto fu abbattuto due volte durante gli scontri aerei. In entrambi i casi si riprese e fu rimesso sull’aereo. Il pericolo che affrontavano quei ragazzi era ben diverso dai nostri patemi, sebbene Thomas Mann sostenesse che l’artista rischia sempre il naufragio. Io ho conosciuto solo una nonna, perché gli altri erano già scomparsi alla mia nascita.
L’altro nonno era decoratore e amava la pittura e la musica; avrei voluto sapere qualcosa di più riguardo a Umberto, e quando pubblicai quella foto su Facebook, un signore mi scrisse privatamente dicendo che suo nonno gli raccontava che il leggendario Francesco Baracca parlava spesso di Umberto Petrin!
Questo nuovo lavoro sembra riassumere suggestioni che provengono dalla musica classica del novecento e l’avant jazz, forse guardando oltreoceano. Sei d’accordo?
Sicuramente. Come già dicevo, la musica del Novecento è sempre presente nei miei ascolti e nei miei studi, così come lo è anche quella Barocca. Ovviamente sono attento anche a coloro che stanno scrivendo il nuovo lessico della musica jazz e dell’improvvisazione. Per quanto mi riguarda, le mie curiosità si dirigono verso gli ultimi lavori di Tim Berne (col quale ho suonato diverse volte), Steve Coleman, Henry Threadgill o Wayne Shorter, sebbene sia musicalmente onnivoro e non abbia alcun pregiudizio nei confronti di altri generi.
Se devo indicare un brano attinente alla domanda e contenuto in “Plastikwind”, sicuramente indico In The Myth. Il titolo è già esaustivo. Si tratta di un frammento di un tema di Paul Hindemith che filtro attraverso alcuni sistemi accordali tipici di Morton Feldman (altro compositore che ammiro). Su quel tema si svolgono improvvisazioni minimali, intese più come variazioni.
SP3509 invece è un tema seriale in cui l’improvvisazione si svolge collettivamente, intrecciando i frammenti della linea melodica, fino al ricongiungimento di tutti sul tema (che prevede parti obbligate d’insieme).
In “Plastikwind” ho anche inserito qualcosa che riecheggia atmosfere più soul o molto black, come The Black River o Looking At The Moon, brano – quest’ultimo – che sembra conquistare tutti coloro che lo ascoltano.
Devo comunque aggiungere che, in uno dei precedenti album (“Traces and Ghosts”), c’era anche una dedica a Nile Rodgers, leader del gruppo Chic, anche loro presenti nel mio mondo musicale, insieme ad altre formazioni storiche del genere soul-funk. Nella mia visione Europa e America non si contrappongono…
Ogni musicista è ispirato, oltre che dalla musica, dalla letteratura, dalla poesia, dalla pittura ecc. Un tuo brano si intitola “American Psycho” come il titolo di un famoso libro di Bret Easton Ellis. Puoi descriverci il tuo rapporto con queste discipline?
Se dovessi indicare la ragione per la quale mi avvicinai alla letteratura, all’arte e alla musica, dovrei citare una frase di quel genio di Emile Cioran: “Perché tutto questo? – Perché sono nato” (da “L’inconveniente di essere nati”). Un giornalista olandese, recensendo un album di qualche anno fa, scrisse “Umberto Petrin is a spectacular story-teller”. Fui molto contento di questa definizione, perché quando suono porgo sempre molta attenzione allo sviluppo narrativo.
La letteratura è entrata nella mia vita prima ancora della musica, grazie a due persone. Quando avevo dieci anni iniziai a leggere i “49 racconti” di Hemingway, incuriosito da Antonio, un falegname che lavorava in un mobilificio sotto casa mia e che raccontava i libri a noi bambini (tra cui, appunto, i “49 racconti”, che chiesi ai miei genitori di comprarmi). Mio padre, tornitore meccanico, era un lettore vorace e mi invitava spesso a leggere. Hemingway mi catturò definitivamente per non abbandonarmi mai.
Da quell’esperienza, centinaia di altri libri si sono insinuati nella mia vita, ho sempre letto e studiato con dedizione e ne sono felice, perché considero la lettura come un percorso necessario alla crescita di un artista, ma soprattutto alla crescita dell’essere. Prima ancora che artista io desidero sentirmi un uomo del mio tempo.
Ho iniziato a studiare pianoforte all’età di 12 anni. A invogliarmi è stata mia madre, soprano, che per anni aveva svolto l’attività di cantante a livello professionistico, interrotto alla mia nascita. La letteratura, la poesia, erano comunque predominanti. Durante l’adolescenza mi dedicai più decisamente alla scrittura poetica. Vinsi premi, iniziai a pubblicare su importanti riviste letterarie, divenni anche collaboratore fisso o redattore di alcune, mi invitarono a leggere in pubblico con i grandi nomi della poesia. Anni bellissimi e ricchi di incontri per me, che arrivavo da un modesto caseggiato di Casteggio, un paese dell’Oltrepò Pavese. Alla letteratura è seguita la passione per l’arte, la pittura e la scultura (nessuna delle quali ho mai praticato). Grazie all’ambiente culturale che frequentavo, ho conosciuto artisti con i quali scoprivo i meccanismi di quelle discipline.
Tutto questo si sarebbe riversato successivamente nel mio modo di procedere nella musica, che è il linguaggio che finora ho trovato più congeniale alla mia sensibilità. Il jazz arrivò per caso, quando avevo ormai 24 anni, ma tutto – in seguito – accadde rapidamente.
Ed eccoci a Bret Easton Ellis. American Psycho è uno dei libri che mi hanno colpito per la costruzione e per il registro narrativo. Denso, irriverente, ossessivo, cinico fino alla comicità. Poteva tradursi in un racconto musicale. Devo dire che in questo brano, Paolino e Patrice hanno interpretato perfettamente quelle pagine; prima della registrazione avevo descritto loro alcune scene del libro e le corrispondenze con le diverse fasi della struttura. Abbiamo dato voce e suono a diversi personaggi: l’episodio finale è quello di Patrice, che evidenzia in modo magistrale il momento culminante, usando batteria, elettronica e voce; stridente, deflagrante.
Nell’album, altri titoli riconducono alla letteratura. Ad esempio, The Wind’s Vowel o Among The Stones sono frammenti di una poesia di Seamus Heaney, un poeta che mi ha sempre appassionato. Tema dell’addio (che ho dedicato a mia mamma, spentasi pochi giorni prima della registrazione) è il titolo di una raccolta di Milo De Angelis.
Non ho mai, comunque, abbandonato la scrittura. Ho parecchi quaderni di appunti, riflessioni, annotazioni. Altri invece contengono una gran quantità di testi poetici; la cultura ci può difendere da arroganza, superficialità e indifferenza, che colpiscono la nostra epoca e dalle quali neppure il piccolo mondo del jazz pare esserne immune.
La letteratura, la poesia, l’arte, oltre che naturalmente la musica, mi accompagnano sempre e saranno presenti fino al giorno in cui dovrò rammaricarmi per dover abbandonare questa dimensione.
È questa la mia vera ricchezza.
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