17 gennaio 2018
A fine ottobre 2017, il Comune di Torino ha annunciato il nome del prossimo direttore artistico del Torino Jazz Festival: il trombettista e compositore Giorgio Li Calzi, già direttore artistico della manifestazione CHAMOISic. L’annuncio istituzionale è stato diramato attraverso le parole dell’Assessore alla Cultura del Comune di Torino, Francesca Leon, che ha commentato la nomina sottolineando il fatto che Giorgio Li Calzi sia «in grado di raccogliere le istanze dei musicisti, di dedicare grande attenzione ai nuovi linguaggi e, soprattutto, di collaborare anche con altri ambiti artistici». La redazione di Jazzit ha deciso di incontrare in anteprima il nuovo direttore artistico per saperne di più sulle sue idee, sulla sua visione, sulla sua sensibilità e sui suoi obiettivi.
di Luciano Vanni
Complimenti sinceri, caro Giorgio, per il recente incarico di direttore artistico del Torino Jazz Festival. Te l’aspettavi, innanzitutto?
No. È stata una notizia inaspettata. Il mio lavoro di solito è quello di produrre musica e di inserire la mia tromba in un linguaggio che fonde minimalismo, elettronica, improvvisazione e jazz. Per caso organizzo il festival CHAMOISic da otto anni con Laura e Gigi Strocchi, a Chamois in Valle d’Aosta, festival di nuova musica che in questi anni è stato definito «virtuoso» da istituzioni, territorio, pubblico e musicisti. Sicuramente CHAMOISic è un punto di partenza per l’organizzazione di un festival di jazz nella mia città, Torino, in cui lavoro da trentaquattro anni (produco musica dalla fine degli anni ottanta e suono la tromba da ventisette anni) e di cui conosco abbastanza bene le dinamiche collegate all’ambito musicale e a chi ci lavora. In questi anni ho assistito allo sviluppo di festival che hanno formato un nuovo pubblico e tanti giovani musicisti, e ho visto crescere organizzatori e gestori di club che si sono contemporaneamente autoalimentati, producendo eventi molto coraggiosi e che sono riusciti a creare un pubblico diverso, molto più creativo e curioso. Vorrei ricordare due festival fondamentali per Torino: Settembre Musica (l’odierno MiTo), che grazie alla creatività di Enzo Restagno ha portato a Torino negli anni ottanta musicisti come Arvo Pärt, Steve Reich, Sofija Gubajdulina, György Kurtag, Louis Andriessen, György Ligeti, e addirittura tribù pigmee per parlare di poliritmia; una linfa vitale per le orecchie del pubblico, che poteva così ascoltare lavori monografici di compositori venuti appositamente a Torino per l’evento, ma anche per valenti formazioni torinesi, che potevano così suonare la musica scritta e diretta dai grandi compositori residenti. E poi il festival Musica90, che dal 1990 ha portato a Torino artisti del calibro di John Zorn Naked City, Sun Ra, Meredith Monk, Nusrath Fateh Ali Khan, Jon Hassell e Cheikha Rimitti. Gli anni ottanta sono stati prevalentemente alimentati dall’ancora forte economia della FIAT (io stesso in quegli anni realizzavo musiche per i documentari di Cinefiat e, negli anni novanta, per gli spot pubblicitari della nota casa automobilistica), e questa ricchezza economica e culturale ha creato le basi per l’organizzazione di due saloni innovativi come il Salone del Libro (dal 1988) e il Salone della Musica, che però ha avuto vita breve. Da questo terreno estremamente fertile è germogliata negli anni novanta un’esplosione di vita notturna presso i Murazzi del Po e successivamente presso i Docks Dora, aree in cui si concentrava l’attività del nightclubbing e dei concerti di rock, jazz e dei musicisti africani e nordafricani. Questo è il territorio in cui mi sono formato come spettatore e come musicista.
Che tipo di proposta hai formulato? Che idea di Torino Jazz Festival hai presentato all’assessorato?
Quando ci è stato proposto il lavoro (che svolgo grazie all’aiuto del collega musicista Diego Borotti, già organizzatore di passati festival jazz a Torino) ho pensato che un festival di grandi dimensioni economiche (in realtà non è più così, perché oggi il budget equivale a un terzo rispetto a quello di due anni fa) dovesse avere le caratteristiche di una rassegna più che di un festival, lasciando delle tracce durante tutto l’anno: molti musicisti di Torino con cui mi confrontavo, trovavano infatti paradossale che la propria città potesse spendere oltre un milione di euro per un festival che si esauriva in pochi giorni, sentendosi quasi ospiti di questo evento innestato nel proprio territorio, e continuando per tutto il resto dell’anno a fare la solita “povera” vita da musicisti: povera di soldi, di possibilità, di dignità professionale, cioè la stessa povertà che respirano ogni giorno i gestori dei club italiani, per i quali pagare il compenso a un musicista è solo l’ultimo passaggio di una lunga serie di spese collegate alla propria attività e alla produzione di un concerto. Sicuramente l’idea di un evento culturale che possa farsi sentire anche durante il corso dell’anno, non può che creare interesse e stimoli non solo per gli operatori del settore, ma specialmente per il suo maggior beneficiario, anche dal punto di vista dei numeri, ovvero il pubblico, che non è stupido, ma è molto vivo e ricettivo, e apprezza sicuramente le novità, specie se ben bilanciate in un palinsesto appositamente studiato. A CHAMOISic, ad esempio, in otto anni di festival, abbiamo “cresciuto” una platea molto eterogenea, che ascolta con interesse diversi tipi di generi musicali, dal folk dei “campanini” delle valli bergamasche, alle sperimentazioni elettroniche di John Leafcutter, fino al jazz poco ortodosso di Paolo Angeli, Fred Frith o Iva Bittová.
Cosa significa, a tuo avviso, essere un direttore artistico? Quanto agevola, o meno, il fatto che tu sia anche un musicista?
Essere un direttore artistico è sicuramente una grossa responsabilità, specie se sei un musicista: l’obiettivo è sempre quello di bilanciare le scelte per accontentare il vasto pubblico del jazz di una grande città, evitando di rimbambirlo con scelte facili e poco creative. E poi, cercare di usare il territorio come uno strumento di lavoro. E infine, pensare anche a scelte etiche, ad esempio uscire dalla logica di far necessariamente suonare i propri amici, considerando che se comunque si organizza un buon festival, ne beneficerà un’intera comunità, amici compresi. Non vorrei sembrare troppo buonista, ma questo è quello che spererei facesse un collega al posto mio. Anche perché un festival cittadino non va a risolvere la carriera artistica dei musicisti, ma tuttavia può stimolarli molto.
Hai alle spalle l’eredità di un evento che ha fatto parlare molto di sé, e che ha ricollocato giustamente Torino tra le città ‘jazz’ europee. Cosa ti piacerebbe confermare delle edizioni precedenti?
Noi partiamo sicuramente dal lavoro che è stato fatto da Stefano Zenni e Furio Di Castri, i precedenti direttori artistici, cioè nulla si crea dal nulla. Anche se il festival è stato effettivamente creato da zero, sei anni fa, da un ex assessore, Maurizio Braccialarghe, che purtroppo è venuto a mancare proprio qualche settimana fa. Considero tutto il lavoro svolto precedentemente indispensabile per analizzare e ottimizzare, e questo è anche un grande vantaggio. Sicuramente è una bellissima cosa che una città come Torino abbia oggi un festival jazz, ma come ti dicevo, penso sia da rivedere la logica di un evento culturale economicamente importante, che non può esaurirsi in pochi giorni, specie quando si usano soldi pubblici. Questo tipo di evento può attrarre un’utenza superficiale, ma non illude certo chi pensa che la cultura debba essere pane quotidiano. E non mi riferisco ai musicisti, ma al pubblico che segue con enorme interesse gli eventi culturali di una grande città.
Quale evento hai in mente? Cosa ci dobbiamo attendere?
Stiamo lavorando al programma, che non anticiperei perché in corso di progettazione. Sicuramente mi piacerebbe offrire un festival che possa accontentare il pubblico del jazz torinese, eterogeneo e anche molto esigente, ma che sia anche differente dai soliti festival jazz: è molto facile prendere artisti in tour che rientrano in un genere specifico e montare un palinsesto di tipo passivo. Questo lavoro lo può fare chiunque, mentre io preferirei mettere in gioco un po’ di creatività per uscire dagli schemi, che non fanno bene né al pubblico né ai musicisti. Sicuramente realizzeremo produzioni originali, questo è per me un obiettivo primario. Ma credo sia difficile avere un successo plebiscitario con un budget improvvisamente ridotto in questa prima “nuova” edizione. Se riusciremo ad accontentare una buona fetta di pubblico e di operatori, potremo già considerarla una vittoria. Calcola inoltre che abbiamo anche una parte di stampa locale, che ha vissuto con entusiasmo gli anni del PD, che oggi spara alla cieca su qualsiasi iniziativa venga presa dalla nuova amministrazione comunale (Movimento 5 Stelle). Un’ultima informazione interessante: i concerti non si svolgeranno più in piazza; dopo i fatti verificatisi a Piazza San Carlo lo scorso anno, i costi della sicurezza, oltre che il montaggio di un grande palco, sono diventati esagerati rispetto al budget totale che avremo a disposizione.
Che ruolo avrà l’investimento in educazione culturale al jazz rivolta ai giovani, alla terza età e ai diversamente abili?
Claudio Merlo, il nostro eccellente coordinatore organizzativo, che lavora da decenni a Settembre Musica (poi divenuta MiTo), qualche anno fa si è inventato la formula “MiTo per la Città”, cioè l’idea di portare i concerti presso il pubblico che ha difficoltà a spostarsi, come ospedali, centri per anziani e disabili e circoscrizioni. Questo modello sarà replicato al TJF e metterà in campo per tale occasione gli allievi delle scuole di jazz torinese, conservatorio compreso. Un’eccellenza territoriale, che è già stata ospite del festival, è anche il CLG Ensemble, comunità che segue i disabili psichici, i cui coordinatori, Dario Bruna e Ramon Moro, sono musicisti che fanno suonare le persone con questo tipo di problematiche in modo estremamente creativo. A loro sarà affidato un concerto che accoglierà anche un ospite internazionale.
Possiamo già parlare di risorse? Sai già il budget che avrai a disposizione?
Un piccolo budget, che speriamo possa poi aumentare, se saremo sempre qui a lavorare anche nei prossimi anni.
Ci puoi anticipare il tuo più grande desiderio da direttore artistico?
Il mio più grande desiderio, che auguro a me stesso, al pubblico e ai musicisti, è quello di creare continuamente degli stimoli, di uscire fuori dagli schemi in cui viviamo. Perché la nostra quotidianità ha bisogno di certezze e di abitudini, mentre l’arte può farci percorrere sentieri inesplorati, permettendoci poi di tornare a casa con un nuovo bagaglio culturale e creativo, e con molta più felicità.