
Nome e cognome Stefano Onorati
Data e luogo di nascita Livorno, 27 ottobre 1966
Strumento pianoforte
Che caratteristiche specifiche ha la tua attività professionale? Che cosa distingue il tuo lavoro da quello degli altri?
Beh, cerco di essere me stesso, se ci riesco sono per forza diverso da chiunque altro. Nello specifico, lavoro sulla sonorità, sul connubio tra discorso musicale e sonorità “più o meno inerente”, un po’ come se dovessi “suonare” un poema sinfonico…
Come è cambiato il tuo mestiere, davanti ai tuoi occhi, nel corso degli anni?
È cambiato, molto. Da una parte, se si lavora bene, ci evolviamo, quindi è normale che le cose cambino, appunto in meglio. Dall’altra, le difficoltà sono molte di più, gli spazi sempre più “controllati dai pochi”, manca spesso una figura essenziale, quella del vero direttore artistico che capisce l’importanza di accrescere il livello anche del pubblico, che poi è quello che, con la sua presenza, mantiene alto l’interesse verso questa musica. Ce ne sono troppo pochi di quelli veri!
Quali obiettivi sociali, culturali e artistici ti sei posto?
Semplicemente, il mio obiettivo è quello di evolvermi sempre, di non fermarmi mai. In questo momento una delle cose più importanti, secondo me, è la sincerità, verso noi stessi, verso il pubblico, verso chiunque.
Come gestisci la tua carriera? Hai un team che ti affianca o sei da solo?
Sono da solo. Ho lavorato con un agente, ma il rapporto diretto con gli altri, dal momento che conosco quasi tutti, è più semplice, immediato. Poi un piccolo agente fa molta fatica. In Italia ci sono alcune agenzie che hanno in mano un po’ tutto, i pesci piccoli fanno molta fatica.
Quali problemi hai riscontrato nel corso della tua carriera? Che cosa ti piace di più del tuo mestiere? E che cosa di meno?
Vorrei avere ancora più tempo da dedicare alla mia musica. Ho un’intensa attività didattica, gestendo il dipartimento jazz del conservatorio di Rovigo, e inoltre insegno a Siena Jazz. Oggi si perde molto tempo nella burocrazia: fatture, telefonate e così via. Il lavoro di ufficio per fare il musicista è molto, e purtroppo non ci sono abbastanza soldi per delegare tutto ciò a qualcun altro. Del mio mestiere ci sono tante cose che mi piacciono, sono un tipo curioso, mi piace sperimentare, conoscere musicisti nuovi, viaggiare, ma soprattutto mi piace il lavoro che si fa su noi stessi, la ricerca della poetica che uno ha dentro di sé. Ci sono anche molti lati negativi, tutti legati alle difficoltà di trovare concerti, difficoltà ad accettare di vivere in un paese dove la cultura è vista come una minaccia, non come una necessità. Ecco, sicuramente la cosa più dura da digerire è sapere di essere un folle a fare un lavoro come il musicista.
Come ti poni davanti al mercato internazionale? Lo consideri un’opportunità rilevante? Come ti stai muovendo? Hai già avuto esperienze positive? Quanto incide, nella tua economia, il mercato internazionale?
Ho avuto molti riscontri positivi con il mio disco in trio, in particolare dal Giappone, quindi sto cercando di capire come muovermi, scoprire dove sono andate tante copie del mio disco e che tipo di interesse ci può essere dietro al mio trio. Suonare all’estero è ciò che psicologicamente mi mantiene in pace con l’essere musicista. All’estero hai la netta sensazione di fare qualcosa di importante, suonando il tuo strumento, qualcosa di utile, che viene apprezzato e che porta ricchezza. Tutta questa positività, me la riporto in Italia e mi deve servire per ricordarmi che ci sono molte persone a cui interessa ascoltare un musicista di jazz e che, se tutto ciò è difficile da farsi, la colpa va ricercata altrove. Non avendo agenzia, non è facile avere molte esperienze all’estero, ma è un mio obiettivo, quello di intensificarle sempre di più, cercando soprattutto le collaborazioni con musicisti di altri paesi. Tutto ciò succede stando in Italia, ma è molto interessante anche farlo nel “loro” paese di origine.
A fianco alla tua attività artistica ne affianchi anche altre (promoter, direttore artistico, booking agency, didatta, autore di libri-metodi)?
Come già spiegato, sono molto impegnato nell’attività didattica e inoltre sono il direttore artistico di un paio di piccoli festival.
Dedichi tempo, professionalmente, ai social? E se sì, quanto tempo e su quali social (Facebook, Twitter, Instagram)? Quanto pensi siano rilevanti ai fini della tua notorietà e della tua professione? Hai una pagina personale/privata e una artistica/pubblica? Come gestisci la tua comunicazione all’esterno? Fai attenzione a non parlare di politica, calcio, vita privata oppure ti senti libero di scegliere linguaggi e argomenti?
Dedico tempo ai social in maniera non costante. Non sono molto assiduo nel seguire tutto, un po’ per mancanza di tempo, un po’ perché non sempre lo ritengo utilissimo. Certo è fondamentale esserci, per molte ragioni di lavoro, è molto comodo, ma in alcuni casi il social tira fuori il peggio di noi. Mi interessano di più i forum, i blog, dove si parla di argomenti specifici e dove spesso il livello della discussione è molto più alto e “mirato”.
Che strategia adotti per promuovere la tua attività? Cerchi di instaurare rapporti diretti con giornalisti, promoter, discografici, manager?
Organizzando io stesso un paio di situazioni, mi rendo conto che chi riceve il materiale da ascoltare è in cerca di qualcosa che lo colpisca, che abbia spessore e profondità, perciò, ogni volta che parto con un progetto nuovo, mi chiedo se tutto ciò accade, se sono arrivato “fino in fondo” oppure se ho margine perché la proposta possa essere migliore. Una volta che sono convinto, allora la fase successiva è quella di prendere in mano il telefono.
Che cosa ne pensi della promozione artistica applicata ai video? Investi risorse nella realizzazione di teaser, videoclip, riprese live? Hai un tuo canale YouTube?
Qualche lavoro l’ho fatto, ho una mia pagina YouTube dove posto video di concerti miei, oppure video fatti da me su un audio che mi interessa particolarmente diffondere.
Quanto tempo dedichi all’aggiornamento del tuo web? Lo ritieni ancora uno strumento valido?
Mi sono sempre fatto il mio sito da solo, imparando a farlo e cercando di imparare il più possibile. Adesso però è giunto il momento di rivolgersi a un professionista, perché il sito web o è veramente professionale, oppure, secondo me, meglio non averlo. È importante averlo, ma secondo me, meno di qualche anno fa. Oggi si usa di più YouTube, Facebook e SoundCloud per ascoltare i musicisti.
In che stato economico versa il jazz italiano, dal tuo punto di vista? Che cosa funziona e che cosa no?
Io sono convinto che la colpa dello stato del jazz italiano adesso non sia legata alla mancanza di soldi. Ovvero, sicuramente i soldi spesi per il jazz sono troppo pochi, ma quelli che ci sono potrebbero essere spesi molto meglio. Del resto, come già detto, non si pensa ad alzare il livello generale (musica, pubblico, strutture), si pensa troppo nell’immediato, a recuperare i soldi spesi per un concerto, per un festival. Finché non si comincerà a guardare alle cose per quello che sono, non si cambierà mai la situazione. I concerti di jazz sono eventi culturali, come tutta la musica, ed è in questo senso che si deve ragionare, specie chi manovra e decide come spendere i soldi.
Che cosa ne pensi di ciò che sta accadendo nella discografia? Ha ancora senso parlare di cd?
Beh il cd oggi è come un biglietto da visita. Una volta ci scambiavamo il proprio biglietto, adesso lo si fa con un cd. Sinceramente a me interessa che la musica venga diffusa il più possibile, poco importa se attraverso il cd, il vinile, il digitale.
Hai dei modelli specifici che riconosci di qualità non tanto sul fronte artistico ma sul fronte del music business?
So chi è veramente forte nel music business, ma non so esattamente come fa a riuscire così bene. Ho sempre pensato che sia un talento come quello che serve per suonare uno strumento. Sinceramente, anche se utile, preferisco avere talento col mio strumento. Imparare a fare business è importante ma spesso va in contrasto con ciò che uno vuole per la propria musica, quindi non ho ancora chiaro se effettivamente voglio progredire nel mio music business, oppure cercare qualcuno capace, che si occupi di gestirmi.
Come ti poni davanti ai finanziamenti pubblici dirottati ai festival? Pensi siano utili? Pensi che siano un “doping” ai danni dei contribuenti oppure di fondamentale importanza sociale e culturale? Che cosa significa secondo te “investimento pubblico in cultura”?
Quando i soldi vanno alla cultura, va sempre bene, anzi meglio se questa cifra aumenta, per il bene di tutti, non solo di chi ci vive. Purtroppo però ho forti dubbi nelle capacità di alcuni di saperli spendere in maniera giusta e corretta.
Ritieni che un musicista abbia anche un ruolo sociale, oltreché artistico? E se sì, in quale direzione?
Certamente. Il musicista di jazz di regola è una persona che ha lavorato molto su sé stesso, che lavora sul trasmettere le proprie emozioni, ha qualcosa da dire e cerca di farlo, con tutte le sue forze. La musica può fare molto, la musica jazz è suonata da musicisti di solito molto sensibili. Un esempio molto recente è stato il concerto per L’Aquila. Tutti eravamo molto convinti di fare qualcosa per la città più che per noi. Direi che il musicista di jazz per essere tale deve anche essere generoso, perché deve dare molto di sé agli altri.
Se tu avessi un ruolo politico rilevante, quali interventi adotteresti per migliorare la cultura e il music business specificatamente relativo alla musica jazz?
Partirei col creare figure professionali. L’organizzatore di un festival deve essere preparato e deve dimostrarlo, il fonico deve aver studiato, non può esserlo solo perché ha comprato l’attrezzatura. Il musicista di jazz produce arte, paga le tasse, quindi deve essere considerato un lavoratore con tutti i diritti che ne derivano e non solo i doveri (come detto le tasse già le paghiamo). Una volta che è chiaro a tutti, che un musicista produce arte, bellezza, cultura, che son cose che arricchiscono un popolo, allora si dovrà cercare di dare la possibilità a tutti di farlo. I soldi pubblici servono perché più persone possibili abbiano utilità dal servizio reso. Se si spendono soldi pubblici per fare concerti che si ripagano comunque col biglietto, allora non si stanno usando nella maniera giusta, perché dimostrano in realtà di “non” servire a niente. I soldi pubblici devono servire per incrementare, per aumentare il livello di tutto, musica, musicisti, livello culturale, coinvolgimento di più situazioni possibili.
Se tu avessi un ruolo manageriale rilevante (promoter, discografico, editore, manager) in questo ambiente, come ti comporteresti?
Se avessi soldi da spendere, li investirei sui giovani, non certo su chi è già affermato e non ne ha bisogno. L’unica speranza di cambiare in meglio le cose è insegnare ai giovani la cosa giusta da fare. Non so se un investimento del genere possa produrre ricchezza, probabilmente no, ma produrrebbe sicuramente un cambiamento positivo, e forse negli anni, alla lunga, anche una consapevolezza culturale superiore.
Come ti vedi, professionalmente parlando, tra dieci anni?
Sinceramente, vivo il presente, non faccio mai piani a lunga distanza. Non riesco a vedermi tra dieci anni, non so che avrò fatto. L’unica mia ambizione è arrivare alla fine della mia vita ed essere soddisfatto per aver fatto ciò che ritenevo importante per la mia musica, senza scendere a compromessi. Il successo spesso “devia” la propria visione, è normale, ma io sono molto testardo, non scendo molto a compromessi. Mi limito a cercare di fare meglio che posso “me stesso”: per me è già un lavoro tosto, non mi rimangono tempo e voglia per fare “strategie” o “programmi”. Prima o poi troverò un equilibrio che mi permetterà di gestirmi in maniera più proficua, ma starò attento a non farmi “deviare” dal mio obiettivo, ho troppo rispetto per quello che faccio, e per coloro che vengono a sentirmi.