15 maggio 2022
Intervistiamo il pianista, compositore e produttore italiano Nicola Guida, il quale ha esordito nel mercato discografico con “Speleology”, un disco di composizioni originali edito dalla label newyorkese Inner Circle Music e pubblicato da Totally Imported e Camille 3000. Sperimentazione, contaminazioni, contemporaneità: questi sono gli elementi che rendono “Speleology” un album estremamente innovativo e interessante.
a cura di Andrea Parente
Partiamo dal passato. Cosa ti ha spinto a incidere questo disco?
Ero in partenza per una residenza artistica all’Istituto Italiano di Cultura a Tokyo, e istintivamente ho come intuito che quell’evento avrebbe segnato un prima e un dopo nella mia carriera. Ho sentito allora la necessità di entrare in studio e incidere quel “prima” con la musica più significativa che avevo composto fino a quel momento, non pensando a un disco. Una volta rientrato a Roma, pochi mesi più tardi, Greg Osby mi ha offerto di entrare in Inner Circle Music e di lì a poco sono partito per Londra, dove tuttora vivo.
“Speleology” (Inner Circle Music, 2021) rappresenta il tuo esordio discografico. Che emozione si prova?
Le emozioni che provo parlano necessariamente di quel “dopo”. “Speleology” è apparso sul mercato solo due anni dopo la sua gestazione per via del rallentamento pandemico, e lo ha fatto inoltre a partire dal Regno Unito. È stato molto emozionante vedere uscire la mia prima opera, stampata su vinile e fruibile da ogni angolo del pianeta; altrettanto gratificante è stato constatare una risposta sorprendente sia dal punto di vista del pubblico che della critica. Gilles Peterson per esempio lo ha inserito tra i cento dischi più rilevanti usciti nel 2021 e Tony Minvielle, voce storica di JazzFM, lo ha incluso nella Top 21 del 2021 accanto agli album di Little Simz, Hiatus Kaiyote, Bad Bad Not Good, Theo Croker e Nubya Garcia.
Che significato ha il titolo? Come hai sviluppato il percorso narrativo del disco?
La speleologia è quella disciplina che studia le cavità naturali al di sotto della superficie. È l’indagine della feritoia e l’esplorazione subatomica dell’altrove. Potremmo dire che Lucio Fontana ne è un esponente illustre (ride – ndr). Le tracce contenute nel disco sono tenute insieme da un filo rosso concettuale, che è un invito a immergersi, a scavare, dentro e fuori. Musica come speleologia, concepita come la più immersiva e totalizzante delle esperienze possibili.
Cosa ti ha motivato nello scegliere Eddy Cicchetti (contrabbasso), Dario Panza (batteria), Francesco Fratini (tromba) e Greg Osby (sax alto) come collaboratori del disco?
Generalmente, sia in studio che nei live, scelgo i musicisti in base alla loro disponibilità a fronteggiare l’imprevedibile, l’inaspettato, eventualmente l’indesiderato, insieme a un vistoso amore per l’hip-hop. Mi interessano quei musicisti attenti più al valore spirituale dell’esperienza performativa che allo sfoggio delle tecniche manipolative dello strumento. Un musicista sensibile e di talento per esempio è quasi sempre un bravo chef. Eddy, Dario e Francesco corrispondono perfettamente a questo identikit. Greg Osby, oltre ad essere un maestro leggendario e un musicista globalmente riconosciuto, è un artista a cui sono profondamente grato per aver ispirato, sin dal soggiorno in Giappone, il parto di quest’opera e la sua collocazione discografica in uno spazio, anche solo mentale, più ampio. Che poi abbia deciso di farmi omaggio di un suo cameo all’interno della traccia The Blade Sensei: Suite For A Suicide Shokunin, è un segno ulteriore della stima e dell’affetto che ci legano.
In Come Inside hai collaborato col rapper Carnival Kid. Cosa ti ha spinto a mescolare jazz e rap?
Come ho già avuto modo di affermare, quello che chiamiamo “jazz”, per me, fa riferimento storicamente a un’esperienza di improvvisazione collettiva e corale propriamente afro-americana, declinatasi allora e tuttora in diverse forme. Il jazz, il rap, la spoken poetry, il free, il bebop, il soul, sono per me sinonimi. Ora, cercando di sventare prontamente la noiosa obiezione sulla liceità o meno per un bianco di suonare una musica tradizionalmente nera, dico sin da subito che non è un problema di melanina in percentuale, quanto piuttosto una questione hegeliana di riconoscimento e di onestà intellettuale.
Questo brano è approdato in due tra le più importanti playlist editoriali di Spotify, “State of Jazz” e “Fresh Finds”, raggiungendo in poco più di due mesi settantamila streaming. Te lo saresti mai aspettato?
Al di là del complesso dei numeri come piaga contemporanea, trovo che Spotify e più in generale le piattaforme digitali siano uno spazio estremamente interessante, e di fatto non così astratto come si possa credere. In contesti internazionali come Londra, New York o Los Angeles, Spotify, così come anche Apple Music, per citare le più in voga, si comportano al pari di un’emittente radiofonica, condizionando e lasciandosi condizionare dalle proposte FM locali e non. Per fare un esempio, il giorno in cui Come Inside è approdata su Fresh Finds, quasi contemporaneamente veniva passata su KayaFM a Johannesburg e su RadioNova a Parigi. Se me lo sarei mai aspettato? Direi di no. È vero pure che Come Inside è una traccia incredibile (ride – ndr)!
Nella tua biografia c’è scritto che il tuo stile è “cerebrale e insieme underground”. Puoi spiegarci meglio questa tua affermazione? Da cosa ti lasci ispirare quando componi?
Le muse che hanno ispirato questo disco sono diverse: l’eros, le donne che ho amato, la musica di Piero Piccioni, Nietzsche, Melancholia, J Dilla, la psicanalisi, l’estetica giapponese del vuoto, le lame, il sashimi, Erykah Badu, il cinema di Elio Petri, Ahmad Jamal, la mistica persiana, la phonè, Rothko, la primavera e l’inverno. “Cerebrale” perché evidentemente struttura e destruttura delle costruzioni concettuali; “underground” perché lo fa nel medium del jazz caratterizzato da quegli elementi fortemente urban come possono essere il rap o i samples.
Photo Credit To Karolina Wielocha
La formazione che caratterizza la maggior parte dei brani del disco è un trio composto da piano-batteria-contrabbasso. Cosa ha significato questo a livello timbrico, espressivo e di arrangiamento? Quale ensemble esprime al meglio la tua musica?
Ritengo che ciò che si compone, a meno che non sia mero esercizio di astrazione a mo’ di prove invalsi della musica (ride – ndr), sia sempre fortemente influenzato dal suo aspetto esecutivo e quindi ambientale della città in cui si vive, della giungla che si affronta quotidianamente, del mondo circostante al quale si chiede di prestare l’orecchio. In quel momento (in verità da sempre) ero molto concentrato sul timbro del pianoforte; la forza emotiva del piano, insieme alla drammaticità del contrabbasso e degli archi, combinate a un ruolo centrale della batteria intesa come beat, mi hanno sempre suggerito grande flessibilità e libertà nell’esplorazione del possibile. Devo dire però che i setup eterogenei sui quali sto lavorando da quando mi sono trasferito nel Regno Unito, stanno progressivamente portandomi a un ampliamento della palette espressiva, sia dal punto di vista timbrico che nella scelta degli strumenti da considerare. Posso dire con certezza che la musica in arrivo sarà il solito serpente al cambio della muta.
Chiudiamo con il futuro. Che progetti hai per i prossimi mesi?
Sono appena rientrato da un tour europeo di supporto ai texani Khruangbin, a fianco di una band retro-soul di Manchester, i Secret Night Gang, nella quale milito da quasi un anno. Quest’estate saremo al North Sea Jazz Festival a Rotterdam, al We Out Here a Cambridge, al Primavera Sound di Barcellona, a Montreux e in anteprima italiana a Gaeta. Collaboro stabilmente con artiste e artisti straordinari come Ruby Francis, Lynda Dawn, il trombettista canadese Jay Phelps, Tom Ford e Ash Walker, solo per citarne alcuni. A cadenza mensile, con il collettivo Patterns, ospito la Late Late session del Ronnie Scott’s Jazz Club, e tutte le domeniche suono per Savannah Grace Church, una chiesa nigeriana a nord di Stratford. Sono molto focalizzato su questo momento presente, e se ci guardo bene dentro, il futuro che si intravede non sembra affatto male. Fingers crossed!