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Stefano Giust</br>Essere indipendenti</br>Speaker’s Corner
Photo Credit To Alessandro Sozzi

Stefano Giust
Essere indipendenti
Speaker’s Corner

Stefano Giust è un batterista, compositore e fondatore dell’etichetta discografica Setola di Maiale, e la sua ricerca espressiva si muove nell’ampio spettro della musica improvvisata e sperimentale, indagando esperienze in campo acustico, elettrico, elettronico e multimediale.

Abbiamo chiesto a Stefano Giust una riflessione aperta su parole quali indipendenza, autoproduzione, contemporaneità, arte e libertà.

Essere Indipendenti

di Stefano Giust

Sulla necessità dell’indipendenza: ancora oggi, nel 2016, qualcuno si chiede se ha senso definirsi ‘musicista indipendente’. Il mio parere è che oggi più che mai ha senso essere e quindi muoversi, in questa direzione. Essere indipendenti non è una invenzione della moda: ha a che fare con una scelta politica, profonda, estetica; ci si pone fuori dal mainstream, proprio non lo si ricerca, è altro da sè.

Guardiamoci intorno, osserviamo la superficie e quello che ci sta sotto. Da quali menti e mani viene gestito il mondo in cui viviamo? Studiando ne possiamo venire a capo: da coloro che controllano le banche, la grande finanza, gli stessi che controllano l’estrazione e il commercio del petrolio, che controllano l’alimentazione delle masse, che operano sulla loro salute, che decidono cosa debbano vedere alla televisione e cosa ascoltare alla radio. Possiedono le televisioni, le etichette discografiche e le case cinematografiche importanti, le piattaforme di massa in Internet, hanno tutte le risorse. È un sistema che arriva capillarmente ovunque nelle nostre vite e condiziona la nostra persona, e condiziona le nostre percezioni. Queste sono considerazioni oggettive che ormai non dovrebbero sorprendere più nessuno. I valori democratici, costituzionali, sono stati messi in disparte già da molto tempo, e tutto questo affinché il mercato diventasse il regolatore incontrastato, secondo il quale si gestiscono persone e popoli di un mondo che nemmeno è illimitato, la cui crescita non può essere infinita. Secondo alcuni importanti osservatori contemporanei, addirittura, siamo in ‘stato di guerra’. Non siamo più nell’epoca dell’Umanesimo, ma della ‘tecnica’. La domanda che mi faccio è molto semplice: io in tutto questo come mi pongo? Quale la mia scelta?

Questo è dunque il panorama sul quale si affacciano gli individui, quindi anche il musicista, l’artista, il discografico e tutti gli operatori della musica. Ora: o stai dentro alle logiche di cui sopra, o stai fuori. Io ho scelto di starne fuori! Le leggi del mercato non mi riguardano perché non mi muovo nel mercato: è con questa premessa che nel 1993 nasce Setola di Maiale.

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fotografia di Patrizia Oliva

Prima di allora il mio percorso era già inserito nello zoccolo duro dell’autoproduzione degli anni Ottanta quello che oggi viene chiamato ‘Tape Network’, un circuito davvero underground e fuori da ogni sistema convenzionale, fitto di relazioni postali e umane, completamente al di fuori delle riviste di musica o di arte. Erano gli anni in cui la cultura più alternativa e progressista circolava attraverso le fanzine. Questo mondo ha sicuramente influenzato la decisione di aprire e gestire una label che, almeno nei primi anni, era anche un network di musicisti che si scambiavano informazioni e collaborazioni.

Essere indipendenti significa poter decidere il più possibile su ciò che ci riguarda, come persone e come artisti. Non ci sono cioè intermediari che possano interagire con noi al punto da distoglierci dal nostro impegno e sottometterci alle loro strategie e alle loro scelte. Anche il pubblico è un forte polarizzatore in questo senso. Tanti sono gli ostacoli alla nostra libertà di individui, l’emarginazione e la povertà economica sono solo alcuni di essi.

Essere indipendenti significa anche essere individui consapevoli, non solo riconoscere la propria posizione sociale e politica, ma conoscere parimenti quella in cui versano miliardi di persone, ricercando costantemente la verità, quotidianamente, senza paraocchi e timori. Bisognerebbe essere empatici. Inseguire le tendenze predominanti non rende liberi: forse rende solo un po’ di tranquillità economica e sociale.

Spesso mi chiedo come può oggi un poeta scrivere del cielo, se non conosce quello che nel cielo accade. Come fa un poeta a descrivere i sentimenti dell’11 settembre 2001, se conosce solo la versione ufficiale di quei fatti drammatici? Nei mass media viene presentata una realtà totalmente distorta che genera una dissonanza cognitiva; la musica che trattano è per forza funzionale a certi scopi, non mi sembra siano interessati al progresso interiore e culturale del pubblico, al quale si negano in verità le bellezze che il mondo offre, in termini di arte, musica e cultura generale. Oggi la copia vale come l’originale. Non possiamo non pensare alla Società Dello Spettacolo, così ben descritta da Guy Debord nel 1967.

Questo insomma è l’ormai perenne mondo nuovo e tante vecchie idee che un tempo ci appassionavano, ora non valgono più. Servono altre strategie di sopravvivenza. L’arte va avanti perché gli artisti non possono fare a meno di farla: ci saranno sempre cantine e soffitte per produrla, per guardarla e per ascoltarla, e purtroppo saranno espressione e interesse di piccole comunità (sì certo, dall’altra parte ci sarà sempre il ricco e luccicante mainstream).

La mia idea di musicista vorrebbe essere alta, nel senso che per me un artista è un poeta ma anche un intellettuale, una persona, un uomo, una donna che vuol vederci chiaro, che non si accontenta della superficie e si immerge nella profondità del suo tempo.

Abbiamo tutti in ricordo la kermesse del jazz all’Aquila nel 2015. Dirò qualcosa di impopolare e antipatico, ma per me è stata una operazione che bisognava boicottare. Allora scrissi un breve post sulla mia pagina di Facebook, nel quale ironizzavo questo festival voluto da un ministro e presentato pochissimi giorni dopo i pesanti tagli governativi alle associazioni musicali di tutto il paese, con le gravi conseguenze che queste scelte comportano (meno possibilità economica o chiusura delle associazioni, significano meno lavoro per i musicisti).

 

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fotografia di Gianni Grossi

Si trattava di un festival la cui gestione era dichiaratamente “senza soldi – i musicisti suoneranno gratis”. Non solo, il festival era per quell’Aquila e per tutti i suoi cittadini per i quali il governo stesso e quelli che lo hanno preceduto, avevano grosse responsabilità su quei tristi fatti (alcuni raccontati anche da Sabina Guzzanti nel suo film ‘Draquila’). Insomma, un festival di solidarietà verso la città da parte di musicisti che a loro volta avevano (ed hanno) bisogno di solidarietà, il tutto con i nastrini dello Stato. Lo so che tutti, o quasi tutti, hanno partecipato in assoluta buona fede e con sincero entusiasmo, questo è bello, dico solo che poteva avere una interpretazione diversa, poteva trasformarsi in una occasione per manifestare un dissenso civile e pacifico, contro le politiche culturali di questo paese e non di meno, denunciare più da vicino la disgrazia di quella città. Per me sarebbe stato auspicabile che i musicisti preparassero il loro palco e al momento di suonare, rimanessero in piedi e in silenzio, un silenzio altro, politico prima che cageniano, un potente silenzio di monito e obiezione: le rovine avrebbero fatto sentire il crollo che le ha create, tanto può fare il silenzio. Continuo a nutrire affetto per i molti amici che vi hanno partecipato, ma certo per me è stata un’occasione persa. Ora invece ci saranno le nuove edizioni, il business si fa largo.

Oggi in tanti parlano di Pasolini, ma mi pare che in molti non abbiano compreso il suo lascito. Lo ripeto, per me un artista dovrebbe prendere posizione in quanto essere intellettuale, dovrebbe farsi carico di certe responsabilità che il suo lavoro in parte gli conferisce, anche suo malgrado sia chiaro. Non dovrebbe importargli se lo seguiranno in dieci persone o dieci milioni. È un fatto di coscienza, ecco tutto.

Ventritré anni fa, quando Setola di Maiale ha iniziato la sua attività, il panorama musicale era certamente diverso. Il CD è arrivato sul mercato nel 1982, in Giappone, ma ci vorranno ancora anni perché il loro uso diventi importante. Quando Setola ha cominciato, c’erano due sole possibilità: Il nastro magnetico e il vinile. Il nastro, la cassetta, era perfetta per le esigenze della label: costi contenuti, tirature controllate, possibilità di personalizzare il packaging. L’idea era di produrre molta musica sperimentale, free improvised music, elettronica radicale, musiche trasversali e di larghe vedute. Era (ed è rimasta) musica difficile da vendere, perciò era necessario adottare una formula che snellisse ogni cosa nella produzione. La scommessa era proprio questa: dar vita ad una realtà discografica estrema, che si mantenesse in vita anche senza l’aiuto della stampa e del pubblico. Serviva (e serve ancora) un approccio DIY.

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fotografia di Giorgio Grazioli

Gli album in cassetta venivano venduti soprattutto ai concerti dagli stessi musicisti, oppure per corrispondenza attraverso il catalogo cartaceo, con il quale si rimaneva informati sull’attività di Setola di Maiale. Poi sono arrivati i cdr e questi sono stati il ‘corrispettivo’ del nastro magnetico: economici e stampabili nel numero di copie necessario, facili da ristampare. Queste sono le costanti di allora come ancora di oggi: ottenere il massimo del risultato con la minor spesa. Il fatto che io stesso sono stato un grafico pubblicitario professionista, ha agevolato di molto tutto il lavoro di packaging e comunicazione. Il sistema era totalmente autosufficiente e così è rimasto.

Quando poi arrivò Internet e il sito – realizzato grazie alla collaborazione con Daniele Pagliero che tuttora ne è il webmaster – la possibilità di trasformare il catalogo in digitale non mi sfiorò. Inoltre non voglio avere a che fare con I-Tunes, Spotify etc. dove la distribuzione dei guadagni tra artista e compagnia è cosa criminale. Quando ho delle alternative non supporto queste cose, così come non appoggio altre società che globalizzano il mondo secondo idee e prassi che non condivido.

Secondo alcuni filosofi, questi colossi sono destinati a trasformazioni e ridimensionamenti, proprio perché l’Uomo è ancora analogico, seppure sotto shock tecnologico. Fortunatamente non tutti si adeguano al gusto e alle regole che il mercato vorrebbe imporci. Qualcuno stamperà sempre in autonomia qualcosa da qualche parte, anche convivendo con Internet. Per esempio, come musicista ho deciso di caricare su YouTube e SoundCloud molta della mia musica, dischi introvabili e che difficilmente saranno ristampati. La musica appartiene al cosmo, bisogna condividerla.

Quanti sono i musicisti da ascoltare oggi? Ogni anno le novità si sommano alle bellezze degli anni precedenti, perciò c’è sempre più musica da ascoltare, artisti da seguire nel presente e da riscoprire dal passato. E’ sufficiente conoscere le realtà sonore del nostro tempo oppure è sufficiente riascoltare le meraviglie del passato? Come ci informiamo? Siamo abbastanza curiosi? C’è un gentile americano che da tanti anni acquista regolarmente i dischi di Setola: un giorno gli scrivo per scambiarci qualche impressione e lui mi dice: “Vengo ripagato dalla musica che ascolto, ma verrò ripagato anche in denaro qualora un giorno volessi rivendere questi dischi, perché dischi di questa natura, negli anni, diventeranno piccole rarità, oggetti da collezione”.

Tutte queste cose, arte, idee, società e altro ancora, fanno i dischi, li compongono intimamente. Ma i dischi servono anche ai musicisti perché possono inviarli ai festival, ai locali per i concerti, alle agenzie, alle riviste, servono per lavorare e quindi per pagare le bollette. Si possono usare anche per regali o per baratti.

I musicisti sono passionali, amano avere tra le mani il frutto del loro lavoro, della loro tenacia, della loro ricerca, continueranno a voler stampare i loro dischi, quali i formati che siano. Questo accade contrariamente alla famosa crisi del disco e andando ancora più a ritroso nel tempo, anche rispetto alle avanguardie della seconda metà del secolo scorso, che si esprimevano quasi esclusivamente nella performance dal vivo (per questo erano poche le occasioni discografiche: molti dischi che oggi ascoltiamo di quegli anni, sono stati stampati nei decenni successivi). Nel jazz le cose sono un po’ diverse perché appassionati e produttori indipendenti non sono mancati. Penso anche a Sun Ra che fondava la sua etichetta Saturn, un esempio di totale libertà creativa e manageriale, come mai si era vista prima! Ma esempi di libertà ce ne sono davvero tantissimi.

Un artista costruisce il proprio percorso nel tempo e lo fa disseminando le tracce del suo lavoro, tra concerti e dischi. La discografia diventa uno ‘strumento’ attraverso il quale si manifesta la sua personalità artistica, vi sono inscritte le sue scelte e il suo progresso nel tempo. In un singolo album si fissano delle idee che poi potrebbero essere tralasciate perchè la ricerca va avanti, ma ne rimane una testimonianza. Ma anche dal punto di vista della tecnica strumentale, vi si può leggere l’evoluzione, o addirittura la metamorfosi di un artista. Quanti musicisti crescono grazie ai dischi degli altri musicisti? Direi tutti, nessuno escluso. I dischi donano una sorta di intimità tra l’artista (la musica) e l’ascoltatore: questo è tangibile, si tocca con mano a differenza di un file audio asettico.

Alla fine, penso questo: tutti, musicisti, giornalisti, pubblico e tutti gli esseri umani, dovrebbero rendere la loro vita migliore, liberarla dalle costrizioni e dalla cecità del conformismo, reagendo con le proprie scelte, consapevolmente, lasciando atrofizzare la menzogna e la bruttura e coltivando le cose vere, reali, oserei dire pure, perché penso siano queste le cose di cui abbiamo tutti bisogno. Non dovremmo più essere condizionati dai pregiudizi che si insinuano pericolosamente nella nostra percezione del mondo. A questo penso come uomo, come musicista e come organizzatore di Setola di Maiale.

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fotografia di Valentina Genna