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“Some Other Spring”: musica che sa di primavera. Intervista a Giuliano Perin

“Some Other Spring”: musica che sa di primavera. Intervista a Giuliano Perin

10 marzo 2022

Intervistiamo il vibrafonista Giuliano Perin, classe 1956, considerato uno dei più quotati artisti italiani, per parlare del suo ultimo progetto discografico dal titolo “Some Other Spring”, edito dalla Cat Sound Records, che ha meritato ottime recensioni da parte delle riviste specializzate. L’occasione è stata preziosa per conoscere meglio l’artista, che si occupa non solo di musica, ma anche di poesia e di teatro, affiancando con i suoi commenti musicali poeti e attori sui più importanti palchi italiani e dirigendo artisticamente diverse manifestazioni culturali che spaziano dalla pittura alla letteratura, dal teatro alla danza. Giuliano è stato inoltre ospite in molte trasmissioni radiofoniche e televisive e ha recentemente ottenuto un importante riconoscimento a livello europeo, essendo stato invitato a rappresentare l’Italia in prestigiose manifestazioni organizzate dall’Istituto Italiano di Cultura a Londra. D’altronde l’artista, alle sue straordinarie conoscenze musicali unisce da sempre un grande carisma che coinvolge anche chi, per la prima volta, si approccia alla musica jazz.

a cura di Andrea Parente

Raccontaci in breve la tua storia. Come è nata la tua passione per la musica?
Faccio parte dei musicisti della vecchia guardia, che hanno iniziato a suonare il jazz quando ancora non c’erano né scuole né spartiti. Fortunatamente i miei genitori mi hanno fatto studiare il pianoforte fin da quando avevo sei anni, e successivamente, all’insaputa della mia insegnante classica di piano, mi sono avvicinato alla chitarra, al basso e alla batteria. A tredici anni ero già in giro a suonare. Tutto quello che allora imparavamo (al di fuori degli studi classici) era frutto dell’ascolto dei dischi e di quello che potevamo rubare con gli occhi e con gli orecchi dai più grandi. Come molti altri musicisti che poi ho conosciuto, anche io avevo un fratello maggiore, ottimo pianista classico, che amava e suonava la musica del Novecento: credo che questo mi abbia influenzato moltissimo.

E come ti sei avvicinato al jazz?
Ricordo benissimo il giorno in cui proprio mio fratello portò a casa un disco di jazz. Ne rimasi folgorato, tanto che quando arrivò la mia insegnante di piano, glielo feci ascoltare, dicendole che avrei voluto suonare quella musica. La sua risposta fu categorica: «Non se ne parla nemmeno». Non volli più vederla. Allora le cose andavano così, e molti ragazzi purtroppo lasciavano lo studio della musica per questa ottusità da parte degli insegnanti. Oggi i giovani sono molto più fortunati. Così continuai a studiare con mio fratello e con altri docenti. Iniziavano ad arrivare in Italia i primi spartiti e qualche libro di teoria. La musica classica mi piaceva molto: Béla Bartok, Igor Stravinsky, Claude Debussy e la musica contemporanea credo mi abbiano inizialmente avvicinato al jazz, accanto ovviamente al rock e al jazz rock, che si suonava negli anni Settanta. Sicuramente ci sentivamo attratti da pianisti come Chick Corea, Herbie Hancock e Keith Jarrett, che allora erano i giovani rampanti di riferimento. Paradossalmente per molti della mia generazione la formazione è cominciata dall’ascolto dell’avanguardia (che allora imperversava), per poi tornare indietro all’ascolto e allo studio dei classici del jazz e del bebop.

Il vibrafono è uno strumento unico e affascinante. Cosa ti ha portato alla sua scelta?
Il vibrafono è arrivato molto più tardi, quando avevo già fatto molte esperienze professionali al pianoforte. In quel periodo avevo scambiato tutte le mie tastiere con un vibrafono e iniziavo a prendere lezioni dei primi rudimenti dello strumento. Dopo sei mesi per curiosità andai a un seminario di David Friedman (organizzato da Saverio Tasca). David rimase stupito da come suonavo dopo solo sei mesi di studio e mi incoraggiò a continuare. Erano gli anni Novanta e devo molto sia a lui che a Dave Samuels (con il quale ho tenuto concerti e ho registrato un cd), che mi hanno veramente spinto ad andare avanti nello studio di questo meraviglioso strumento.

“Some Other Spring” (edito dall’etichetta Cat Sound Records) è il titolo del tuo ultimo album. Che significato ha? Come hai sviluppato il percorso narrativo del disco?
Questo cd è frutto di un periodo molto sofferto, purtroppo legato a un grave lutto, dal quale sto finalmente uscendo. Ho dedicato questa parte della mia vita allo studio approfondito di alcuni brani dedicati alla primavera e alla preparazione degli arrangiamenti, suonando prima in piano trio e poi sovraregistrando vibrafono e marimba. In un paio di pezzi si è inoltre aggiunto Maurizio Scomparin alla tromba e al flicorno. Ho ripescato anche brani della tradizione jazzistica assai poco suonati e devo dire che questa ricerca è stata una costante nel mio percorso discografico. Lavorare su pezzi sconosciuti è sempre molto stimolante per me.

Come nascono le tue composizioni e in che modo ci lavori?
Devo dire che la maggioranza delle mie composizioni sono lavori giovanili, rielaborate nel corso degli anni. Sinceramente amo le melodie fresche e cantabili, che a volte possono sembrare complesse, ma funzionano bene già cantandole sotto la doccia. Poi ci lavoro sopra scavando armonicamente e ritmicamente. Spesso suonando chiedo consigli ai musicisti che sono con me o semplicemente a chi ascolta. Non si finisce mai d’imparare.

Cosa ti ha motivato nello scegliere Maurizio Scomparin (tromba), Franco Lion (contrabbasso) e Daniele Scambia (batteria) come compagni nella realizzazione del disco?
Si tratta di musicisti molto affidabili con i quali collaboro da decenni; con loro l’interplay è una certezza, così come la disponibilità allo studio e alla ricerca, cose per me fondamentali per la creatività.

Come sei riuscito a trovare un equilibrio tra più dimensioni espressive?
La mia vita musicale è stata molto ricca di esperienze. Ho avuto la fortuna e l’onore di suonare in molte formazioni, dal solo alla big band, insieme a tantissimi bravi musicisti, e ho spesso collaborato e interagito con scultori, orafi, pittori, fotografi, poeti, attori e registi; insomma, cerco di abbracciare l’arte a tutto tondo. Oggi sono convinto che tutto questo, pur essendo a volte molto faticoso, mi abbia premiato e ora, forse, sto raccogliendone i frutti. Mi considero sempre pronto ad imparare. Ci vorrebbero tante altre vite.

Sul tuo profilo social hai dichiarato che hai arrangiato tutti i pezzi dedicati alla primavera. Cosa ha significato questo a livello timbrico, espressivo e di arrangiamento?
“Some Other Spring” è un album molto introspettivo (il titolo è preso da una struggente ballad interpretata magistralmente da Billie Holiday). Ho curato dapprima gli arrangiamenti del piano trio, attingendo come sempre dalla tradizione e cercando al contempo di essere libero di esprimermi con i miei strumenti e con il mio suono. Spero di esserci riuscito, e soprattutto spero che il suono del mio vibrafono rimanga inconfondibile.

Cosa lo distingue dai tuoi precedenti lavori?
Come dicevo prima, si tratta di un lavoro che rappresenta una svolta nella mia vita, sicuramente c’è una maggiore maturità (anche anagrafica) legata al superamento di certe angosce, che forse un po’ tutti noi abbiamo. Non devo più dimostrare nulla a nessuno e mi dedico in maniera più serena all’espressività che ho sempre perseguito. Tecnicamente avevo già affrontato la sovraregistrazione del vibrafono e marimba sopra il piano trio (con me stesso al piano) in un altro cd intitolato “Menage au Trois” (Caligola Records, 2013). Può risultare molto interessante suonare accompagnandosi allo stesso tempo, perché sai dove stai andando. Ma può anche capitare che non ti piaccia affatto il modo in cui tu stesso ti accompagni!

Come suona questo disco dal vivo?
Gli spettacoli di presentazione dal vivo di questo cd mi hanno dato veramente tanta soddisfazione. Ovviamente non potendo suonare contemporaneamente piano e vibrafono, ho dovuto rivedere gli arrangiamenti, aggiungendo molte parti solistiche per tromba e flicorno. Oltre all’impeccabile sezione ritmica, dal vivo c’è sempre l’instancabile e talentuoso trombettista Maurizio Scomparin, un fratello di musica e di vita, con cui ho condiviso e condivido ancora centinaia di concerti. È stata molto interessante anche la collaborazione con l’attore e regista Bruno Lovadina, con cui abbiamo creato e portato in scena uno spettacolo di musica, prosa e poesia dedicato proprio alla primavera e alla rinascita. È stato un vero e proprio successo nella stagione estiva, che dovremo replicare presto.

Che emozione ti ha dato il ritorno ai concerti, alla presenza del pubblico e alla musica live?
Era ora di tornare a suonare dal vivo. La presentazione di “Some Other Spring” era programmata per la primavera del 2020 e nessuno di noi immaginava quello che sarebbe potuto accadere. Il ritorno ai concerti dal vivo è stato molto sofferto e graduale: spesso il pubblico e noi stessi artisti sul palco eravamo un po’ a disagio, tutti sempre molto attenti a quanto accadeva intorno a noi e sempre ligi alle regole. A mio parere questo atteggiamento alla fine ci ha premiati, permettendoci il ritorno a pieno regime in presenza del nostro pubblico. Qualcosa purtroppo è cambiato, ma speriamo di tornare a lavorare quanto più sereni possibili.

Da anni collabori con illustri artisti, sia nazionali che statunitensi. Quali insegnamenti ti hanno trasmesso queste straordinarie esperienze?
Ho sempre cercato di attingere a piene mani da tutti gli artisti che ho incontrato nel corso della mia carriera. Ovviamente ci sono personalità straordinarie che ti lasciano un segno indelebile. Personaggi come Barry Harris, Paul Jeffrey, Claudio Roditi, Gianni Basso, Luciano Milanese, Dave Samuels, solo per citarne alcuni, sono stati per me molto importanti. È incredibile come in tutti questi grandi artisti abbia trovato sempre due doti fondamentali: un forte rigore accanto a una grande flessibilità. Molti jazzisti, e in genere molti artisti, hanno queste doti, quasi una sorta di caratteristica forse innata o forse semplicemente acquisita nel corso degli anni.

Sei stato invitato a rappresentare l’Italia in prestigiose manifestazioni internazionali. Che emozione ti provoca tale riconoscimento?
Devo dire che la prima volta che sono stato invitato a rappresentare l’Italia in importanti manifestazioni internazionali quasi non ci credevo. Sorrido ancora se penso alla telefonata da parte di un funzionario del Ministero degli Affari Esteri per propormi un concerto a Londra. In un primo momento ho pensato a uno scherzo di qualche amico buontempone. Le esperienze all’estero ti formano moltissimo e soprattutto ti avvicinano ad altre realtà veramente importanti che spesso molti artisti sottovalutano.

La pandemia ha drammaticamente fermato il settore artistico. Come hai reagito a questa terribile situazione?
Il lockdown in una prima fase mi ha creato una forte angoscia. Noi jazzisti siamo sempre per strada e se non giriamo ci sentiamo morti e depressi. Poi ho capito che avrei dovuto approfittare di questo periodo per studiare e suonare di più. Ho registrato molti video a casa, anche con una certa autoironia. Devo dire che personalmente questo periodo di riflessione mi è servito molto. Ho rivisto tante cose che avevo abbandonato per mancanza di tempo e ho riscoperto momenti di studio profondo che non mi concedevo più a causa dei ritmi frenetici ai quali eravamo abituati.

Quali sono le sfide che hai dovuto affrontare e che affronti tuttora?
La più grande sfida che ho dovuto affrontare sin dall’inizio della mia carriera è stata sicuramente quella di portare avanti contemporaneamente due professioni (medico e musicista) con tanta passione e dedizione. La mia vita è stata sempre dedicata alla musica e alla medicina. Allora mi sono spesso trovato a confrontarmi con colleghi musicisti che purtroppo tendevano a sottovalutare la mia professionalità musicale, solo perché svolgevo anche un’altra professione. Ora questo non succede più perché i fatti parlano da soli e la mia carriera musicale è consolidata da migliaia di concerti in Italia e all’estero e da decine di album a mio nome e in molti altri come ospite. Un’altra sfida che cerco di affrontare oggi è quella di diffondere la buona musica e di tenere sempre unita la comunità dei jazzisti anche nelle nostre città di provincia, dove spesso è veramente impossibile superare certe piccole meschine rivalità. Se vai a New York capisci immediatamente che questo meccanismo è stato ampiamente superato: tutti i musicisti hanno ben capito che, se non sono uniti e non si sostengono l’un l’altro, anche frequentando essi stessi i vari jazz club, la piccola e spesso ghettizzata comunità jazzistica purtroppo è destinata a soccombere.

Infine, che progetti hai per il futuro?
Innanzitutto mi auguro di poter tornare a girare ancora tanto per portare la mia musica in Italia e all’estero; auguro altrettanto a tutti i musicisti del mondo, perché la vera musica si fa dal vivo. Sicuramente sono molto belli i video che oggi possiamo vedere comodamente seduti da casa (io stesso ho un bel video di presentazione di “Some Other Spring” visibile su YouTube), ma resto dell’opinione che il jazz va assaporato nei piccoli club, accanto ai musicisti con i quali magari possiamo anche scambiare due parole a fine concerto.

INFO

www.giulianoperin.it

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