Annoverata da Rita Marcotulli come una delle sue principali eredi e forte della pubblicazione del suo primo album “Infant Speech” (AlfaMusic, 2104), Gaia Possenti è considerata tra le migliori pianiste in circolazione. Con lei abbiamo parlato del suo momento, tra ricordi, sensazioni del presente e proiezioni future
di Roberto Paviglianiti
Di recente sei stata ospite del festival Lucca Jazz Donna. Credi che nel mondo del jazz ci sia ancora discriminazione verso le musiciste donne?
In Italia, purtroppo, può ancora succedere che alcuni uomini ti guardino come un “qualcosa di diverso”. A volte parlo con altre colleghe di questo argomento, e siamo dell’idea comune che dal momento che ci è più difficile essere presenti in determinati contesti professionali dobbiamo impegnarci nel dare sempre il massimo, a studiare di più, a essere più preparate. All’estero tutto questo è superato, come per esempio negli Stati Uniti. Qui siamo un po’ indietro, anche se sono fiduciosa per il futuro.
In un’intervista del 2010 Rita Marcotulli ti ha elogiato e annoverato tra le sue principali eredi.
Quando ho letto quell’intervista è stato come un fulmine a ciel sereno. Non me l’aspettavo ed è stata una delle maggiori soddisfazioni del mio percorso artistico. Ogni tanto me la rileggo… Lei è per me un faro da seguire, e mi sono un po’ proiettata in lei e nel suo modo di suonare, soprattutto all’inizio.
Dopo il periodo di studio è arrivato l’album “Infant Speech” (AlfaMusic, 2104), in trio con Fabrizio Cecca al contrabbasso e Massimo Carrano alla batteria. Qual è stato il percorso che ti ha portato a questo tuo primo lavoro?
Ci sono arrivata progressivamente, e tra l’altro proprio Rita Marcotulli è molto legata al brano che dà il titolo al disco, che nasce da un mio tentativo di riprendere una figurazione che solitamente lei fa con la mano sinistra; anche la versione di My Favorite Things fatta in 5/4 deriva da uno studio fatto con lei.
Ascoltandoti si avverte la particolare sensibilità della tua mano sinistra.
Sì, sono mancina, anche se questo non mi condiziona più di tanto, però è la mia mano forte, ha un tocco diverso. Mi piace lavorare con quella mano, dalla quale scaturiscono diverse situazioni sonore.
All’inizio del percorso nella musica la tua famiglia ti è stata vicina?
Da piccola mi piaceva rifare al pianoforte le sigle dei cartoni animati e suonavo tutto quello che mi stimolava. Sono vissuta in un ambiente famigliare favorevole. In realtà c’era anche un po’ di pregiudizio, perché forse i miei genitori non hanno considerato l’idea che potessi studiare composizione. Il compositore o il direttore d’orchestra sono figure storicamente maschili, nell’immaginario comune. Mi hanno però sempre sostenuto nel mio percorso. Mio padre era un appassionato di musica classica e devo a lui l’amore per il suono.
Come sei arrivata al jazz?
Mi piace comporre, per questo motivo mi sono avvicinata al jazz e dunque all’improvvisazione, che è composizione estemporanea, quindi il massimo realizzabile.
In passato hai citato “You Must Believe In Spring” (Warner Bros. Records, 1981) di Bill Evans tra i tuoi dischi preferiti.
Sì, ogni volta che lo ascolto mi emoziona, mi vengono le lacrime. È un disco sia fruibile, sia doloroso. Bill Evans sapeva tantissimo di musica, ha integrato la sua conoscenza della musica classica con il jazz creando un nuovo modo di suonare il pianoforte. Lo ammiro per diversi motivi, come per il rigore del suo modo di operare. Ha studiato moltissimo, ha lavorato sui suoi limiti. È un esempio assoluto. Sono comunque attratta anche da figure lontane dallo standard jazzistico, come Lyle Mays e Don Grolnick.
Nel tuo background musicale non c’è solo il jazz. Di recente hai registrato l’album “Janis”, rivolto al repertorio di Janis Joplin, per la collana de L’Espresso “Jazz italiano live 2016”, insieme a una band tutta al femminile.
In questo lavoro mi sono avvicinata all’arrangiamento per strumenti diversi. Amo ogni stile musicale. Amo anche il suono dei DJ, come Trentemøller. Amo la classica, ma non rinnego l’house music. Non butto niente, ascolto tutto con curiosità.
Suonare dal vivo che emozioni ti trasmette?
Stare sul palco mi diverte, anche se alcuni mi considerano una “suora della musica” perché quando suono dal vivo sono serissima. Sono così concentrata che per me è una sorta di missione, non mi perdòno niente. Mi preoccupo del gruppo, sono una perfezionista e suonare i miei brani mi dà molta soddisfazione.
La tua principale attività riguarda la composizione. Come nascono i tuoi brani?
Da varie esperienze di vita o da persone che ho incontrato. Per esempio Canzone deriva da un perdono verso un mio ex fidanzato, oppure Hija de Tanguero è rivolta ad Alessandro Gwis, che è stato tra i miei principali insegnanti. Sono innamorata del suo modo di suonare, e colgo l’occasione per sfatare il luogo comune dell’allieva che si innamora del maestro…
Cosa stai preparando per il futuro?
Sto scrivendo, scrivo sempre perché è la mia prima vocazione. Ho conosciuto di recente la musica araba grazie all’incontro con il cantante tunisino dell’Orchestra di Piazza Vittorio Houcine Ataa. Il suo modo cantare mi ha aperto a un mondo diverso, e impazzisco per questo tipo di sonorità. Attualmente collaboro con la cantante lirica Cristiana Arcari, in un duo nel quale uniamo jazz e lirica. Soprattutto spero che esca presto un nuovo disco, ci sto lavorando, devo capire bene l’ensemble da utilizzare, perché prim scrivo in maniera assoluta, poi penso al tipo di formazione con la quale poter adattare il materiale.
Hai un sogno nel cassetto?
Scrivere musica per film. Sono appassionata del connubio tra musica e immagini, impazzisco per Thomas Newman, John Williams e Hans Zimmer. Sono una “drogata” della colonna sonora di Risvegli, che contiene dei bellissimi temi. Sì, mi piacerebbe realizzare il sogno di scrivere una colonna sonora, di essere in studio di registrazione e vederla nascere insieme alle immagini.