16 novembre 2022
Intervistiamo il pianista e compositore azero Isfar Sarabski, classe 1989, considerato tra i più bravi artisti orientali, in occasione della sua esibizione al Roma Jazz Festival del 15 novembre, che ha emozionato il pubblico presente alla Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica ‘Ennio Morricone’, e per parlare del suo debutto discografico da leader dal titolo “Planet”, pubblicato dall’etichetta discografica Warner Music.
a cura di Andrea Parente
Partiamo dal passato. La pandemia ha messo a dura prova gli aspetti lavorativi ed esistenziali del mondo dello spettacolo. Come hai affrontato e gestito questa situazione?
È stato un periodo molto impegnativo al quale nessuno era preparato, non solo nell’industria musicale. Tutti noi abbiamo dovuto affrontarlo e adattarci di conseguenza. Per questo motivo abbiamo anche dovuto ritardare la pubblicazione del mio album di debutto “Planet”. Tuttavia per fortuna tutto è andato bene per quanto riguarda la salute e così ho avuto l’opportunità di esercitarmi, creare e lavorare di più nel mio studio. La pandemia ha sicuramente cambiato la comprensione del futuro e le aspettative. La maggior parte del materiale su cui ho lavorato durante quel periodo ora si sta sviluppando ulteriormente in nuovi progetti.
Concentriamoci sul presente. Cosa ci racconti di “Planet”, il tuo debutto discografico da leader, pubblicato dall’etichetta Warner Music nel 2021?
Ho lavorato per alcuni anni a questo album e ci è voluto del tempo per farlo nascere. C’è voluta tutta la mia esperienza per realizzarlo. La musica del disco è un’interpretazione del viaggio che ho fatto finora nella mia vita e rappresenta dei momenti speciali, delle emozioni specifiche che ho vissuto e che sono stato in grado di interpretare con la musica.
Che emozione provi? Che feedback hai avuto sul disco?
Per me personalmente è stato un progetto a lungo termine su cui ho lavorato duramente e ho cercato continuamente di migliorarlo. Non c’erano aspettative particolari su come mi sarei sentito al riguardo dopo l’uscita, è stato semplicemente bello avere in mano il progetto a cui ho dedicato una grandissima quantità di tempo e di energia e vederlo pubblicato sulle piattaforme online.
Cosa ti ha spinto a scegliere Makar Novikov e Alan Hampton (contrabbasso e basso), Shahriyar Imanov (tar) e Sasha Mashin e Mark Guiliana (batteria), come collaboratori nel disco?
Con Mark Guiliana è stata una storia interessante. Lo seguo da un po’ di tempo e mi sono sempre piaciuti i suoi progetti e le sue performance. Gli ho inviato un’e-mail chiedendogli se potesse essere interessato a partecipare all’album e ho condiviso con lui un po’ di materiale iniziale. A Mark è piaciuto e così abbiamo iniziato a registrare. Mi ha consigliato molto durante la lavorazione del disco e mi ha fatto conoscere Alan Hampton, un altro grande musicista che si adattava perfettamente al progetto. È stato un grande piacere e una grande esperienza registrare con un così grande musicista. Allo stesso tempo ho continuato a lavorare con Makar Novikov e Sasha Mashin, anche loro protagonisti assoluti del progetto, che hanno registrato insieme il pezzo Planet. Tutti loro hanno dato un grande contributo all’album e ci hanno messo la loro straordinaria energia.
La tua formazione è un quartetto. Cosa significa questo in termini di timbro, espressione e arrangiamento?
Abbiamo presentato l’album con la formazione in quartetto così com’è nell’album, ma principalmente senza gli archi. Non è infatti molto funzionale viaggiare con l’ottetto, ma gli arrangiamenti che si ascoltano durante le esibizioni dal vivo provengono principalmente dall’album, con pochi nuovi interventi inediti, che spero possano offrire al pubblico una bella esperienza e tante emozioni.
Cosa ti ispira mentre componi?
Non c’è una formula speciale o qualcosa che potrei sottolineare. Non è uno stato o un tempo specifico. È principalmente la realtà che mi circonda e ciò che accade quotidianamente, o anche quello che non accade, a ispirarmi. Tutto questo mi piace interpretarlo in musica, per fissarlo nello stesso momento in cui è successo e tenerlo poi da parte, per svilupparlo magari in seguito in un album o nei singoli brani, o anche solo per comprenderlo con un retrogusto “déjà-vu“.
Un trombettista di spicco del jazz italiano – Paolo Fresu – ha ribadito nel suo libro Musica Dentro l’importanza delle proprie origini e tradizioni culturali durante il processo creativo. Un linguaggio musicale che, necessariamente, deve partire da dove veniamo e da chi siamo. Quanto è importante per te il legame con le tue origini? E come riesci a trasformare il tuo background culturale in musica?
In effetti il legame con le proprie origini gioca un ruolo enorme nella creazione artistica e ogni musicista o persona legata all’arte ha il proprio background culturale che porta sempre dentro di sé e che aiuta a creare diversità e colori, variazioni musicali, folklore, etc. ed è fantastico che tutto questo possa accadere. Personalmente interpreto la musica nazionale con grande piacere, cercando di combinarla con alcuni aspetti del folk azero, prendendo ispirazione dall’ascoltare qualche vecchia composizione e provando a riarrangiare alcuni pezzi. In alcune delle mie melodie si può sicuramente ascoltare il collegamento e l’ispirazione provenienti dalla mia terra d’origine.
Photo Credit To Adil Yusifov
E per finire uno sguardo al futuro. Quali sono i tuoi prossimi progetti? Quali invece gli obiettivi che ti sei prefissato?
Ci sono molti progetti in uscita a breve. In primis un progetto elettronico su cui sto lavorando da un po’, che sarà il primo ad essere pubblicato. Poi ho in programma un progetto acustico, forse anche con gli archi. Ci sono molte idee, relative allo sviluppo musicale, in Azerbaigian.
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