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On The Bare Rocks And Glaciers. Intervista a Francesco Chiapperini
Photo Credit To Giancarlo Brunelli

On The Bare Rocks And Glaciers. Intervista a Francesco Chiapperini

11 novembre 2021

Quando il jazz lascia il posto agli echi della montagna.

Il clarinettista e compositore Francesco Chiapperini è sempre stato sensibile nei confronti delle radici culturali che caratterizzano ogni essere umano. Il suo ultimo disco, “On The Bare Rocks And Glaciers”, pubblicato dalla Caligola Records, è ispirato alla Preghiera degli alpini, brano del compositore parmigiano Giovanni Veneri. Un vero e proprio tributo alle origini, che affondano nelle valli e nelle montagne della bergamasca, sua patria di adozione.

di Andrea Parente

Il tuo ultimo lavoro discografico dal titolo “On The Bare Rocks And Glaciers” (Caligola Records, 2021), è ispirato alla musica popolare, e nello specifico ai canti alpini, ma anche alla guerra e alla speranza di ritornare ai propri cari sani e salvi. Come hai sviluppato il percorso narrativo del disco? 
Come per ogni mio progetto musicale, mi piace pensare a un percorso con cui accompagno l’ascoltatore alla scoperta dell’album. Un percorso che nasce, si sviluppa e termina lasciando alla fine un vivido ricordo di quanto ascoltato. Da qui il lavoro di ricerca che ha visto la nascita del sestetto. La volontà di omaggiare la terra che mi ha adottato (quella bergamasca), unitamente all’omaggio che negli anni precedenti avevo dedicato alla mia terra natale, la Puglia, ha permesso di affrontare questo viaggio molto particolare, pieno di sfumature e di delicatezza, oserei dire.

Cosa ti ha ispirato durante il processo creativo dell’album?
La bellezza delle montagne, il misticismo che le circonda e che sconfina nelle radici umane, la magia dei loro paesaggi e la dura memoria storica che le ha rese protagoniste, sono stati gli ingredienti che ho utilizzato e che mi hanno permesso di portare a termine questo lavoro. La volontà, infine, di proporre in una chiave nuova, quasi neoclassica, un repertorio che potesse spaziare in diverse aree musicali, in particolare quelle della musica popolare, del jazz e della musica classica, ha completato il tutto. L’etichetta Caligola Records ha accolto con entusiasmo questa mia proposta e ringrazio il produttore Claudio Donà per aver creduto in questo mio lavoro.

Interessante come l’ambientazione espressiva dell’album, per l’appunto le vette delle montagne, ti abbia portato a soluzioni timbriche particolari, realizzate con fiati e violino. 
Volevo più che mai raggiungere le sonorità che si ascoltano in un coro di voci, con i propri differenti timbri e le loro numerose sfumature. Per affrontare questo tipo di sfida ho pensato che un organico concepito in base a una versione “cameristica” potesse essere l’approccio più congeniale e funzionale al mio scopo. Dovevo staccarmi da logiche di “sezione” puramente jazzistiche e inoltrarmi in campi che, comunque, non mi erano nuovi, visto che il mio passato viene proprio dalla musica classica. È come se da un punto di vista artistico stessi attraversando la mia fase “neoclassica”, riscoprendo sonorità e approcci che si discostano – apparentemente – dalla poetica che ho sposato anni fa entrando nel mondo del jazz. In questi mesi ho scritto diversi lavori che ricalcano proprio questo mio “mood” interiore.

Viene naturale chiederti il perché tu non abbia convocato in studio un coro.
Forse un coro al mio fianco non avrebbe avuto l’impatto che cercavo per la musica suonata. Oltre a non reggere le proporzioni (seppur numerosi, siamo sempre in sei!), sarebbe stata una replica dell’ensemble che ho utilizzato. E la sfida stava proprio nel poter essere il più vicino possibile a una sonorità da “coro” senza ricorrere alla voce. D’altra parte, da sempre le mie voci sono stati gli strumenti.

A proposito, che rapporto hai con la montagna?
È un ambiente che mi affascina, che mi trasmette pace e che, allo stesso tempo, mi fa spesso ricordare quello che scriveva Immanuel Kant nella sua opera Critica della ragion pura: l’uomo soggetto all’andamento delle leggi casuali decise dalla natura. Un uomo che non può nulla dunque, di fronte alla magnificenza e al sublime. E il mio sentire la montagna, al pari di altri elementi naturali, rappresenta proprio questo.

I brani del disco sono animati da un ricorrente dialogo tra fiati e violino. Come sei riuscito a creare un sostegno musicale tra le parti, nonostante l’assenza di una componente ritmica e armonica?
Questo è stato l’aspetto più difficile, e allo stesso tempo affascinante, del lavoro. La mancanza di una sezione ritmica che scandisce la pulsazione metrica all’interno dei differenti brani fa sì che ogni strumento debba astrarsi dalla propria natura (a volte prettamente solistica, se penso ai clarinetti, al violino e alle trombe) per prestare il proprio servizio agli altri strumenti. Ecco così che i concetti di “strumento solista” e di “strumento accompagnatore” vengono stravolti: non esistono più gerarchie e schemi convenzionali. Tenere poi la tensione ritmica con strumenti a fiato che solitamente non sono abituati a farlo, aumenta la complessità del lavoro. Ed è per questo che ringrazio ancora una volta i musicisti che mi hanno accompagnato in questo viaggio così duro e impegnativo.

Photo Credit To Lorenzo Corti

La formazione musicale del disco è composta da quattro fiati, un violino e una voce, oltre che dal tuo apporto sia strumentale che compositivo. Cosa ha significato tutto questo a livello timbrico, espressivo e di arrangiamento?
Scrivere per soli fiati (alla fine considero il violino come uno strumento “soffiatore”, visto che si deve adeguare alle dinamiche fisiche che accomunano il nostro approccio allo strumento) è una sfida davvero dura. Significa avere da un lato la libertà di poter accedere a una tavolozza di colori molto ampia da cui scegliere accuratamente, a seconda dell’impronta emozionale del brano che si sta approcciando, dall’altro – e questo è il contraltare della vicenda – prestare molta attenzione all’impatto fisico che una scrittura di questo genere implica. Al di là di situazioni in cui ho prediletto il dialogo tra alcuni strumentisti all’interno del sestetto, posso dire che ognuno di noi suona senza soluzione di continuità. Questo approccio, da un punto di vista compositivo, ha implicato anche un grande utilizzo del contrappunto, per dare a ogni singolo strumento una propria linea melodica su cui poter esprimere al meglio il suono e il timbro che lo caratterizza.

Ascoltando l’album si respira grande spiritualità, libertà e lirismo.
Il lirismo che caratterizza il lavoro fa sì che la musica che ne deriva risuoni come un eco lontano, ma allo stesso tempo presente e vivido. I canti che abbiamo suonato, unitamente agli altri brani che caratterizzano questo repertorio, sono stati scelti con cura e attenzione in un’ottica narrativa, per raccontare una storia attraverso le emozioni che l’hanno caratterizzata. E la storia dei soldati alpini che hanno combattuto sui nostri confini è intrisa di una forte carica emozionale. Le parole che raccontano le loro gesta risuonano potenti, come se fossero accolte da grandi vallate. Tutto questo viene espresso con quanto giustamente tu stesso hai sottolineato: spiritualità, libertà e lirismo.

Avete provato a rappresentare dal vivo quest’opera? Se sì, come ha reagito il pubblico? E come cambia la musica?
I concerti live con questa formazione sono stati diversi (e ce ne saranno ancora!). La risposta del pubblico è stata molto positiva. E ritengo che tale positività sia proprio figlia di quel “prendere per mano” l’ascoltatore e guidarlo in questo lungo viaggio. La varietà dei brani che compongono il repertorio è davvero ampia e accompagna chi ascolta verso un universo di suoni che si districano tra jazz, musica classica, popolare ed elementi magici. Forse è proprio questa la chiave: rendere un viaggio ricco di sfumature che possano stimolare le emozioni di chi ascolta attraverso le note che ho scritto e che suoniamo.

Cosa ti piace maggiormente ricordare di questa esperienza?
La fatica nella realizzazione, la dedizione con cui i miei musicisti (Virginia Sutera al violino, Vito Emanuele Galante alla tromba, Mario Mariotti alla cornetta, Andrea Ferrari al sax baritono e Roger Rota al fagotto) hanno affrontato questo repertorio, impegnativo e difficile, che non ha mai dato tregua. L’entusiasmo di Diego Bergamini, che ha registrato il disco e che devo ringraziare per avermi consigliato la piccola chiesa in mezzo ai boschi in cui abbiamo registrato “live” il lavoro. I ricordi sono molteplici, e vivono preziosi nella mia testa.

INFO

www.francescochiapperini.com

 

 

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