1 giugno 2020
Diana Torti è una brillante cantante italiana che vive a Londra, e ha creato un suo stile originale che mescola jazz, belcanto, musica antica e improvvisazione. L’abbiamo intervistata.
Di Eugenio Mirti
Una tua breve descrizione per chi non ti conoscesse!
Ho sempre cantato sin da piccola, ma l’idea di diventare una cantante di professione si è sviluppata negli anni grazie ai tanti incontri che ho fatto nel tempo e che mi hanno accompagnata in questa scelta. Le prime performance in pubblico sono arrivate da adolescente, nel liceo dove ho frequentato le scuole superiori nella mia cara Umbria. Poi è arrivato un meraviglioso musicista di musica antica, Adolfo Broegg, che mi ha fatto appassionare alla musica medievale. Così ho iniziato a studiare musica e al contempo a iniziare la mia carriera di cantante con i primi concerti in vari ensemble. Dopo poco mi sono trasferita a Roma dove mi sono laureata in Psicologia (un’altra mia grande passione). Qui l’incontro con la mia prima cara insegnante di canto Cinzia Spata mi ha aperto le porte al jazz: è stato amore a prima vista. Da allora ho iniziato a frequentare la scena musicale jazz romana, tra le splendide performance che ho avuto il piacere di ascoltare e la mia attività concertistica. Successivamente ho approfondito lo studio del canto lirico e ho conseguito il Diploma accademico di primo e secondo livello in Jazz.
Negli anni si sono susseguite tante collaborazioni fondamentali per la mia carriera tra cui quella con l’Ensemble Micrologus, con Fabrizio Cardosa e il suo Kammerton Vocal Ensemble e alcune registrazioni e spettacoli teatrali con il M° Ennio Morricone e il M° Luca Francesconi. Queste e tante altre fortunate opportunità mia hanno permesso di formarmi sul campo e di conoscere e confrontarmi con musicisti formidabili.
Coniughi amore per jazz, musica antica e belcanto. Perché questa varietà? È difficile da gestire?
La varietà dipende dalla mia storia. Ho sempre seguito le passioni musicali del momento perché quando nascevano rappresentavano un’esigenza imprescindibile. Se penso a questi percorsi a distanza di anni, mi viene da dire che il movimento è stato guidato dalla ricerca continua di un suono vocale naturale e libero che mi consentisse di sperimentare una ampia varietà di possibilità timbriche. Non ho mai amato le definizioni di genere musicale per la mia ricerca personale. Certo, l’ambito in cui mi sento più a casa per passione è il jazz ma non potrei prescindere dalla tecnica belcantistica né dalla tradizione antica che fanno parte della nostra cultura musicale. Oggi canto quello che ho vissuto fino ad ora. Fra qualche anno aggiungerò dell’altro ancora. La ricerca è continua e senza limiti. Penso sia più difficile da gestire la mancanza di stimoli piuttosto che la ricchezza di un vissuto in continuo movimento.
Hai approfondito la figura di Jeanne Lee; ci racconti questo progetto?
Jeanne Lee è stata una figura determinante nel mio percorso. Non aveva paura del suo suono (come ricorda di lei la poetessa e drammaturga Ntozake Shange) e questo aspetto mi ha affascinato e al contempo messo in crisi. La voce è uno strumento intimo e privato: appartiene a tutti ed è fortemente legato alla nostra identità. Cantare non è così semplice come a volte sembra. Oltretutto spesso si è inscatolati in definizioni o tecniche o strutture che tendono a classificare un certo tipo di vocalità o di stile. A pelle questa artista aveva, dunque, intaccato una corazza che oramai doveva sciogliersi. Così ho iniziato a mettermi nuovamente in discussione, a pensare alla mia vocalità in modo diverso, a sperimentare senza preoccuparmi di cosa avrebbe pensato un ascoltatore di una mia performance o in quale categoria avrebbero inserito un mio progetto. E questo ha chiaramente cambiato tutto il mio approccio vocale e altresì riportato il discorso sull’improvvisazione, che io ho sempre amato, ma che dallo scat tradizionale ora si trasformava in altro. E qui i suoni medievali e la musica classica contemporanea hanno fatto capolino, regalandomi sfumature che fino ad ora non avevo immaginato di poter utilizzare al di fuori del loro contesto di repertorio. Oltre al fatto vocale nell’approfondire la sua storia ho scoperto un’artista generosa, positiva e impegnata: una donna totale, fusa alla propria umanità, con una coerenza identitaria tale che ogni suo gesto vocale era ricco di significato. Non potevo non dedicare alla Lee parte della mia ricerca, così sono nate tante fortunate occasioni per raccontarla: un articolo su Alias (in allegato a il manifesto ad agosto 2017) con il supporto del giornalista Luigi Onori, una tesi di ricerca di conservatorio (dal titolo “L’urgenza espressiva del primo suono”) e il mio album “On a Cloud” uscito a gennaio 2019.
È il primo CD che registro a mio nome. Rappresenta la mia identità vocale e musicale attuale, in cui tutte le mie esperienze fatte fino ad ora confluiscono. È un lavoro che è ha avuto dei tempi dilatati di ideazione e realizzazione ed è stato impreziosito dal contributo dei figli della cantante, Cavana e Ruomi e dallo straordinario cantante David Linx, amico intimo dell’artista newyorkese. Tutti loro hanno condiviso con me i loro affettuosi ricordi personali della Lee, consentendomi di avvicinarmi alla storia di questa artista attraverso i ricordi di persone che avevano avuto rapporti speciali con lei. E questo mi ha aiutato anche nella musica. Il progetto si è poi concretizzato a Londra dove ho registrato e pubblicato per l’etichetta inglese SLAM di George Haslam.
Come hai scelto le tracce di “On a Cloud”? E Sabino De Bari alla chitarra?
Il repertorio è fatto di brani originali, standard ed improvvisazioni. Ci sono anche brani che la Lee ha cantato o composto (come Straight Ahead e In These Last Days). La scelta delle tracce è legata alle mie sensazioni ed intuizioni. Sono partita dall’ascoltarla ma poi questo mi ha ispirato immagini nuove grazie alle quali ho scritto brani originali (The Man Of The Sea e On A Cloud che dà il nome all’album) e gli arrangiamenti, tutti intimamente legati l’un l’altro.
Sabino è un musicista straordinario. È un compositore e improvvisatore che ha svolto un grande lavoro di ricerca timbrica sulla chitarra, includendo l’uso di elementi percussivi e tecniche di estrazione classica contemporanea. Nel CD c’è anche il suo Raskolnikov, un brano che amo molto cantare.
Con lui mi sono divertita ad esplorare tante possibilità del mondo sonoro vocale e a reinventarmi continuamente: timbricamente, tecnicamente e ritmicamente. Ho giocato con i miei suoni immaginando una vocalità totale che includesse l’idea convenzionale dell’utilizzo della voce (come in Honeysuckle Rose), per poi allontanarsene aprendosi alle sfumature dell’improvvisazione più libera (Fireflies).
Pensare a lui è stato quindi naturale ed ha costituito un valore aggiunto. Oltretutto mi piaceva l’idea della chitarra classica, che amo profondamente, anche se è piuttosto bizzarro come strumento pensando ad un progetto di jazz. Le sonorità che avremmo potuto creare mi corrispondevano molto. Suoniamo insieme da diversi anni e abbiamo costruito nel tempo una buona sinergia. Nella nostra musica cerchiamo il dialogo ma anche la conflittualità, in una continua dialettica tra consonanze e dissonanze. Un’altra affinità che abbiamo è che intendiamo il lavoro sull’improvvisazione come composizione, privilegiando la ricerca di forme ampie e non chiuse: un gioco continuo tra improvvisazione jazz, blues, musica classica contemporanea ed etnica dentro spazi timbrici molto ampi (come nella nostra versione di The Seagulls of Kristiansund).
Grande fonte di ispirazione sono state le registrazioni raccolte e raffinate della Lee in duo con il pianista Ran Blake (a partire dal ‘61 con il loro primo album “The Newest Sound Around”). Ci corrispondeva la spontaneità di un discorso musicale completo e immediato, senza filtri.
È stato impegnativo ma sono soddisfatta del risultato, lo siamo entrambi.
E questo ci è stato riconosciuto sia dalle numerose e generose recensioni ricevute, sia dalle menzioni da parte della rivista inglese Jazz Views e del The New York City Jazz Record che hanno inerito “On a cloud” tra i migliori album vocali jazz del 2019. Siamo felici e grati di questo riscontro.
Quali sono le principali differenze tra la scena londinese (dove vivi) e quella italiana?
Intanto quando decisi di trasferirmi a Londra quattro anni fa lo feci non tanto per un discorso musicale ma per fare un’esperienza di vita. La scena musicale londinese inizialmente l’ho vissuta marginalmente per un’esigenza fisiologica di adattamento a una lingua, una cultura, un quotidiano completamente stravolti. Rispetto all’Italia ho sicuramente avuto modo di assistere a molti più concerti e di diversi generi musicali. A Londra trovi veramente di tutto e gli eventi sono accessibili e fruibili sotto tanti punti di vista (logistico, economico o di reperibilità delle informazioni).
La mia sensazione è che qui, nonostante l’offerta e la domanda siano ampie e generose, sia difficile proporre progetti che si collocano al di fuori degli schemi orientati ad un jazz più tradizionale o d’intrattenimento. Paradossalmente da quando vivo qui ho riflettuto molto sulla realtà italiana. Nel nostro paese abbiamo tanti musicisti incredibili che rimangono tuttora un punto di riferimento per me. E le proposte musicali che offrono sono spesso estremamente creative ed interessanti.
Questa ricchezza di professionisti della musica andrebbe valorizzata ancor più come andrebbe riconosciuta la loro identità professionale. Ma questo è un discorso di lunga data che meriterebbe un altro spazio ben più ampio.
A prescindere dal luogo o dalla città dove si vive e si suona l’importante è difendere la nostra possibilità di esprimerci attraverso l’arte e resistere, sia individualmente che collettivamente, nonostante le difficoltà che questa professione comporta. Nella mia esperienza questo accomuna le diverse scene musicali. Essere musicisti è una ricchezza per noi stessi e per la comunità in cui viviamo e ci rapportiamo: una realtà che va difesa strenuamente.
fotografia di Aggie Zoltowska