6 ottobre 2017
Domenica 24 settembre, al Blue Note Milano, Roberto Gatto ha presentato “Now”, il suo nuovo lavoro in quartetto pubblicato di recente da Abeat Records. A fianco del batterista Alessandro Lanzoni (piano), Alessandro Presti (tromba) e Matteo Bortone (contrabbasso). Per l’occasione lo abbiamo intervistato e con lui abbiamo parlato di questo progetto e di altro ancora.
Di Antonino Di Vita
Come hai assemblato questo quartetto?
Guardandomi attorno, come faccio sempre per i miei gruppi, ascoltando, prendendo informazioni, captando qua e là dei segnali. È capitato che mentre ero in Sicilia con il mio trio composto da Gabriele Evangelista e Alessandro Lanzoni, con il quale collaboro ormai da diversi anni, si unisse a noi Alessandro Presti. Tempo dopo ho deciso di richiamarlo a suonare e il trio è diventato un quartetto. Evangelista poi ha ceduto il posto a Matteo Bortone e così è nato questo gruppo.
Quindi sei anche un talent scout.
L’ho sempre fatto in realtà, sono anni che lavoro con musicisti giovani e che mi adopero per scoprire nuovi talenti. È una sorta di investimento e al contempo anche un rischio. Sono sempre molto disponibile comunque a fare da nave scuola! È importante che un musicista della mia esperienza si prodighi a promuovere i giovani. Nella città in cui abito frequento spesso i locali dove si suona: mi piace ascoltare i gruppi emergenti e scoprire realtà musicali interessanti, non solo in termini di tecnica ma anche di qualità della musica proposta.
Spesso i gestori dei locali lamentano la mancanza di giovani musicisti fra il pubblico.
Devo dire che questo è abbastanza vero. Anche se poi dipende dai locali. Uno dei motivi è che questi ragazzi non hanno soldi, quindi non possono affrontare una spesa come ad esempio quella di stasera, qui al Blue Note. I ragazzi vanno in luoghi dove possono prendere una birra a cinque euro e l’ingresso è libero. E questo è comprensibile, visto le scarse opportunità di lavoro e quindi la poca liquidità disponibile. Non è snobismo o cattiveria, è semplicemente un problema economico.
Dal punto di vista delle opportunità lavorative, rispetto al passato, è migliorata o peggiorata la situazione del jazz italiano?
Adesso è sicuramente più difficile. C’è molto meno lavoro e pagato, devo dire, abbastanza peggio. Per trovare un situazione simile dobbiamo tornare agli anni Settanta, dove c’era pochissimo lavoro e pagato malissimo. Poi c’è stato tutto il periodo degli anni Ottanta e Novanta, e in parte anche Duemila, in cui hanno iniziato a girare più soldi e si riusciva a guadagnare bene. La cosa purtroppo si è ridimensionata un’altra volta, non dico a livello degli anni Settanta, ma comunque si è ricreata una situazione di stallo. Oggi, se non c’è qualcuno che investe e crea un fondo cassa con il quale assicurare ai musicisti un cachet, è molto difficile pensare che un artista possa essere pagato, come si dice, a incasso. A New York lo fanno, ma l’Italia non è New York, non è paragonabile. Un musicista o un gruppo che si muove ha delle spese. È difficile pensare di suonare a percentuale qui in Italia, anche se molti stanno iniziando a proporre questa formula: il Blue Note, l’Auditorium Parco della Musica di Roma, la Casa del Jazz. Fino a quattro o cinque anni fa si percepiva un cachet, adesso si suona a percentuale, ed è davvero impensabile!
Tornando al concerto, questa sera avete presentato “Now”, il disco uscito di recente per l’etichetta Abeat.
Visto che lo presentavamo qui Milano, e c’era anche Mario Caccia (Abeat), ci siamo attenuti abbastanza alla scaletta del disco, anche se comunque abbiamo inserito alcuni brani che non facevano parte dell’album. Sono tre anni che lavoro con questo quartetto: abbiamo un repertorio molto vasto. In “Now” trovano posto brani originali, standard e improvvisazioni libere.
È la prima volta che incidi con l’etichetta Abeat?
Si. Erano anni che ne parlavo con Mario, ma non eravamo mai riusciti a concludere. Finché non è capitata l’occasione giusta è la cosa è andata in porto. Il disco è venuto molto bene, ha un suono incredibile. Considerato poi il momento non felice per il mercato discografico (specialmente quello del jazz) devo dire che dopo l’uscita del disco, fra luglio e agosto, ai concerti siamo riusciti a vendere parecchi cd.
Pensi che le piattaforme digitali come Spotify abbiano contribuito in parte al calo di vendita dei dischi?
Così dicono. Il disco, come oggetto, è tangibilmente obsoleto. I giovani non lo comprano più, sono attratti dal digitale. Una volta c’era il culto del vinile. Ricordo questo oggetto meraviglioso che ascoltavo e riascoltavo, studiando la copertina, leggendo le note. Poi è arrivato il cd, con un suono un po’ più freddo, in un formato più piccolo. Io comunque continuo a comprare dischi, cd ma soprattutto vinili.
Ti ha sorpreso la nomina del tuo quartetto nei Jazzit Awards 2016 quale miglior gruppo italiano?
Si, mi ha sorpreso. Mi aggiudico abbastanza spesso la prima posizione come miglior batterista ed è una cosa che mi gratifica molto, ma la nomina di questo quartetto quale miglior gruppo italiano è qualcosa di inatteso, che mi rende orgoglioso, soprattutto per il lavoro che abbiamo fatto per cercare di farlo diventare una realtà collettiva, e forse questa è una cosa che è arrivata al pubblico. Ultimamente si punta molto sulla figura del leader, sull’individualismo, perdendo di vista il discorso d’insieme.