22 febbraio 2023
Intervistiamo il direttore d’orchestra, compositore e musicista Riccardo Brazzale, fondatore della “Lydian Sound Orchestra”, il quale ci racconta “No More Wrong Mistakes (This is Our Music)”, recente lavoro discografico pubblicato dall’etichetta Parco Della Musica Records.
a cura di Andrea Parente
Partiamo dal passato. Illustraci in breve la storia della “Lydian Sound Orchestra”, fondata da te nel 1989.
La Lydian Sound Orchestra è nata nel 1989 come sbocco quasi naturale del lavoro che all’epoca, da giovane arrangiatore ventinovenne, andavo facendo con Claudio Fasoli, al quale i miei esordi nel professionismo devono oggettivamente molto: un suo vecchio brano, Lydian Short for Shorter, influenzò di fatto (pur probabilmente a sua insaputa) il mio approccio a un linguaggio musicale che associava il lydian concept di George Russell al modal playing ‘misto’ di Wayne Shorter. Il percorso di quei primi anni esaltanti era volto a cercare un proprio suono ma anche una posizione, direi per nulla scontata, nel panorama di allora. Credo che la vera svolta ci sia stata nel 2002, con il nuovo gregge formatosi con Pietro Tonolo, Robert Bonisolo, Rossano Emili, Kyle Gregory, Roberto Rossi, Dario Duso, Michele Calgaro, Paolo Birro, Marc Abrams e Mauro Beggio. Alcuni di loro c’erano già negli anni precedenti ma il gruppo, nella sostanza, era nuovo, come nuove erano le prospettive, con Monk a far da collante alle composizioni originali. In ogni caso si andava delineando compiutamente una nostra strada, che era quella della rilettura della tradizione, partendo dalla via indicata da Gil Evans ma, naturalmente, andando oltre. Niente di realmente nuovo, si dirà. In verità questo è un campo che poteva e può essere indagato e sviluppato in modo assolutamente composito, articolato e creativo. Ed è proprio quello che abbiamo fatto a partire dal cd “Back To Da Capo” (Almar, 2006) e, in fondo, con diverse variabili, cambiamenti e innesti, abbiamo continuato a fare sino ad oggi, con l’ultimissima formazione che, con il ritorno di Mauro Negri, la ferma presenza di Gianluca Carollo e, di recente, quella di Matteo Alfonso, il suono del corno di Giovanni Hoffer, comprende anche più di un giovane dell’ultima generazione, come Federico Pierantoni, Marcello Abate, la vocalist Vivian Grillo e lo stesso Glauco Benedetti, che è comunque con noi da diversi anni.
Focus sul presente. Cosa ci racconti di “No More Wrong Mistakes (This is Our Music)”, l’ultimo lavoro discografico della Lydian Sound Orchestra, pubblicato nel novembre del 2022 dall’etichetta discografica Parco Della Musica Records? A cosa allude il titolo?
Cerco di raccontare, parafrasando e interpretando Jep Gambardella (giornalista di costume interpretato da Toni Servillo e protagonista del film La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino, ndr), che a un certo punto della vita dobbiamo fare quello che più sentiamo nostro, che ci viene spontaneo, con sincerità, e che ci diverte, in tutti i sensi. Che non possiamo più permetterci di buttare via il tempo, facendo errori sbagliati. Perché di errori giusti, anzi gestibili, addirittura forieri di nuove aperture, nel jazz ne incontriamo tutti i giorni. Ma non più quelli sbagliati, cui siamo indotti, di solito, da richieste di terzi, da fattori esterni, diciamo non da intime convinzioni. La Lydian è una formazione abbastanza atipica, certamente non una big band, ma neanche un indifferenziato ensemble allargato. È una medium band in cui l’imprinting della mia scrittura è importante tanto quanto il work in progress dato dall’apporto dei singoli e del collettivo. Disse bene, tanti anni fa, Kyle Gregory che non siamo «né straight, né free, ma loose». This is Our Music.
Cosa lo differenzia dall’ultima produzione musicale “Mare 1519” (Parco Della Musica Records), pubblicata nel 2019?
Primariamente, quasi banalmente, direi la presenza dell’ospite, perché artisticamente una personalità come quella di David Murray non può non influenzare le scelte, prima di tutto di repertorio e, subito dopo, di organizzazione del materiale musicale. In realtà, avevamo lavorato con lui anche nell’estate del 2019, appena dopo la registrazione di “Mare 1519”, e David si era calato molto bene in quel repertorio, ma in questa occasione ho creduto opportuno partire da un tipo di brani che ci accomunassero molto di più. Poi è vero che “Mare 1519” obbedisse anche a scelte diciamo trasversali, in quel caso al tema del viaggio (anche dal punto di vista letterario, delle altre espressioni artistiche), mentre qui il fil rouge è puramente musicale: quello della tradizione afroamericana degli anni Sessanta.
Dunque, la presenza del sassofonista americano David Murray, con cui l’orchestra collabora da anni. Come vi siete incontrati? In che modo l’hai coinvolto nel progetto?
L’inizio della nostra collaborazione risale a quasi otto anni fa, quando, su invito di Stefano Zenni, abbiamo pensato e realizzato insieme un omaggio a Duke Ellington e Billy Strayhorn, che abbiamo presentato a Torino, registrato e successivamente trasmesso integralmente da Rai Radio 3. Da allora, inizialmente con cautela, poi sempre più convintamente, abbiamo spesso lavorato insieme e l’idea di un disco è venuta fuori quasi in modo naturale. Ricordo bene che una volta, a Niš, in Serbia, dove suonavamo, gli fu chiesto il motivo della nostra collaborazione e, con molta semplicità, David disse che con la Lydian si trovava proprio bene e che io e lui avessimo gli stessi gusti. Il che, davvero, non è poco. Per la verità, in quell’occasione Dave disse anche che eravamo la miglior orchestra in Europa ma, insomma, forse in questo è stato un po’ partigiano…
Ma va bene! Con lui avete suonato su tanti palcoscenici importanti e le dodici tracce che compongono il disco sono state registrate in occasione dei concerti alla Casa del Jazz di Roma. Come si è svolta la registrazione? Quali sono state le difficoltà che ha comportato?
Casa del Jazz, Auditorium e Parco della Musica Records assicurano una professionalità molto alta. Roberto Catucci crede da anni nella Lydian e ci ha messo davvero in una condizione ideale. La maggior parte dei brani sono nati lì, in quei giorni, ma diciamo la verità: nel jazz siamo spesso abituati a mettere in piedi programmi nuovi all’ultimo minuto, a volte il pomeriggio stesso del concerto, cosicché avere a disposizione una struttura e uno staff per tre giorni ci ha veramente consentito di lavorare bene. E alla fine di fare un bel concerto. E poi Dave è uno che trasmette energia, positività, con cui è facile entrare in interplay.
Il disco è composto sia da brani di Duke Ellington e Billy Strayhorn, Ornette Coleman ed Herbie Nichols, passando per Joseph Jarman e Butch Morris, che da brani del repertorio dell’orchestra. Qual è il tuo personale approccio nell’arrangiamento di composizioni di mostri sacri del jazz?
Io mi sono sempre considerato soprattutto un arrangiatore, più che un compositore, e in questo mi sento molto più vicino alla via di Gil Evans che a quella di George Russell. Mi diverte molto arrangiare, per quanto, chiaramente, suonare le propria musica dia sempre grande soddisfazione. Ma nel jazz, da sempre, un arrangiatore è di fatto un compositore e poter lavorare primariamente con un gruppo stabile consente di attuare l’insegnamento che fu di Ellington e di Mingus: scrivere musica pensando ai musicisti che la eseguono. Fermo restando che in tutto questo non si può mai derogare all’essenza di ogni gruppo: la Lydian ha il suo sound, il suo linguaggio, il suo modo di proporsi, anche quando suona Ellington o Coleman, Jarman o Dolphy, Monk o Shorter. Diversamente, diventeremmo un’orchestra di servizio. Il che non può essere.
Ma come si svolge il processo compositivo della Lydian Sound Orchestra? Da cosa ti lasci ispirare?
Credo che, in linea di massima, i processi compositivi seguano spesso delle strade che all’inizio sono un po’ casuali: fra le dita, al pianoforte, nasce, a volte senza troppo volerlo, una cellula, che può essere motivica, nel senso tradizionale (cioè melodico-ritmica), ma anche un accostamento orizzontale, diciamo di accordi (nel senso più lato), un ostinato nella zona grave o, al contrario, una struttura volatile in zona acuta. L’unica vera differenza, rispetto allo scrivere una semplice linea su accordi, è che – come accennavo sopra – sin dalle prime note penso al suono dell’orchestra, ai colori degli strumenti, ai registri. Fra l’altro in un’orchestra vi sono diversi polistrumentisti e questo allarga le possibilità. Poi, come sempre accade, in tanti casi basta che ti restino in testa tre note e da lì possono nascere cose sino a poco prima impensabili (belle o brutte non importa, naturalmente). È verissimo, poi, che come per tutte le forme di espressione artistica, il mood del momento, specie quello a medio termine, incide molto. In tutti i modi, di una cosa possiamo star certi: è tutto più complicato quando si deve lavorare contro il tempo, magari con degli input, dei temi extramusicali abbastanza precisi. Al contrario, quando si è tranquilli e non si hanno compiti prestabiliti, le idee saltano fuori da sole: basta mettere le mani sui tasti e cantare le idee.
La formazione che dirigi è un’orchestra di ben dieci/dodici elementi. Cosa significa questo a livello timbrico, espressivo e di arrangiamento?
Sin dall’inizio mi è sempre stato chiaro che i riferimenti storici non andassero ricercati negli organici della big band ma nei gruppi di sei/sette fiati, in cui ognuno potesse e dovesse considerarsi anche un solista. È verissimo che sono partito dall’idea della Capitol Band di Miles Davis (per via anche di tuba e corno), passando poi anche dalla Monk Town Hall e dalla Mingus Black Saint. In realtà, il riferimento più costante è stato quello del primissimo Duke Ellington, ma se penso ai colori, oltre inevitabilmente a Gil Evans, ho preferito spesso ‘allargare’ il suono e le armonie del gruppo di tre o quattro fiati: penso agli stessi Thelonious Monk e Charles Mingus, ma anche al sestetto di George Russell e poi a un certo Wayne Shorter o a certi procedimenti di Sun Ra o, ancora, ad alcune suggestioni da Lennie Tristano. Forse faccio prima ad andare al contrario: di primo acchito, non penso mai alle sezioni ma a coppie o piccoli gruppi di strumenti. A questo punto però i riferimenti più prossimi sono prima quelli dell’Histoire du soldat di Stravinskij o del camerismo di Darius Milhaud o di Maurice Ravel.
In base alla tua lunga esperienza con la Lydian Sound Orchestra, ci racconti un ricordo a cui sei particolarmente legato?
Uno solo… Difficile a dirsi. Senza andare alle collaborazioni con grandissimi solisti, sono molto legato al mini tour inglese del 2007, indimenticabile sia dal punto di vista musicale che da quello umano: fu un’esperienza che cementò molto il gruppo. Ma non posso certo scordare l’entusiasmante avventura di “The Black Saint and The Sinner Lady” del 2014, con la compagnia di danza Abbondanza/Bertoni. E, in anni più recenti, la tre giorni a Roma del 2017, con la registrazione di “We Resist!” e l’epilogo del concerto ellingtoniano al Quirinale, in diretta per Rai Radio 3. Poi ci sono altri mille piccoli momenti che però, inevitabilmente, restano solo nostri.
Uno sguardo al futuro. Quali sono i prossimi progetti dell’orchestra? Quali sono, invece, gli obiettivi che ti poni?
Stiamo lavorando molto su alcuni progetti accomunati dall’idea di collegare la musica con altre forme artistiche, sia la letteratura che le arti visive o altre arti performative, in site specific. È un percorso che dovrebbe avere qualche risconto già nel breve, ma che vorrebbe averne soprattutto nel medio-lungo termine. Abbiamo bisogno, come l’aria, di pubblico anche nuovo, curioso, aperto, che abbia voglia di farsi sorprendere. Per fare questo non abbiamo scelta: dobbiamo andare a cercarlo, questo pubblico, ben al di fuori dell’orto di casa. Ma va bene, non ci spaventa di certo il dover uscire, lontano dagli steccati. Anzi, un po’ di incognite e un filo di imprevedibilità sono il sale, quanto basta, della vita.
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