22 dicembre 2017
Abbiamo intervistato Luca Curcio mentre era di passaggio in Italia per registrare il suo nuovo album.
Di Eugenio Mirti; fotografie di Leonardo Schiavone
Sei a Torino per registrare questo disco ma in realtà vivi a Copenaghen; come sei arrivato in Danimarca?
La prima volta fu nel 2014, dopo aver suonato a Torino per il Fringe Festival con Joan Balke e Patrice Heral; Balke mi invitò ad andare a Copenaghen per una masterclass che si teneva in estate, a luglio, e mi innamorai della città, dell’atmosfera e del Rhythmic Conservatory. Decisi così di provare ad andare a vivere laggiù mandando una application per fare lì il master, e mi presero.
Quali sono le differenze tra Italia e Nord Europa nella didattica e nela vita musicale?
Didatticamente la differenza grossa è quella di essere considerati dei colleghi più giovani che hanno lo spazio per sperimentare quello che vogliono. Molta attenzione alla ricerca personale, al senso di quello che fai e perché lo fai. In Italia se non vuoi studiare musica classica ti iscrivi ai corsi jazz; nel mio caso è stata una scelta ponderata, ma ha delle imposizioni, devi confrontarti con la tradizione, con programmi stabiliti… questo non è necessariamente un male ma a volte è molto restrittivo, e spesso il jazz è visto in modo molto tradizionale e accademico.
La vita jazzistica di Copenaghen è strana; c’è una fortissima attività sperimentale, e una scena mainstream altrettanto forte, che esiste dagli anni 70, da quando Oscar Pettiford e Dexter Gordon andarono a viverci. Manca a volte quello che sta in mezzo.
Inoltre il governo stanzia molti milioni di corone per progetti musicali, e ci sono anche altri sponsor privati; tutto questo crea una maggiore libertà, slegandosi forse dal pubblico, sfociando a volte in una ricerca fine a se stessa, ma in generale interessante.
L’avevo in mente da molto tempo; nel 2015 suonai con Gavino Murgia ed Enrico Degani, e mi rimase la voglia di rincontrarci: a Copenaghen ho avuto un piccolo fondo per realizzare un progetto, come parte del programma di studio; li ho chiamati entrambi, insieme a Ruben Bellavia e Simone Bottasso, che è una vera di superstar dell’organetto in Europa ma ha anche studiato jazz e elettronica. Mi piaceva l’idea di una band ibrida, con un suono acustico ma ognuno con dei legami a delle tradizioni precise; Gavino alla Sardegna, Simone alla musica Occitana, Enrico alla musica classica, Ruben alla tradizione Jazz. Ci siamo trovati a Bruino allo studio Only Music di Carlo Miori e l’abbiamo registrato. Come hai scritto i brani?
Ci ho messo molto tempo; alcuni erano bozzetti di vecchie composizioni; diversi li ho scritti passando tanto tempo ad ascoltare i dischi degli altri per capire i loro mondi sonori; da lì ho plasmato i brani, e in effetti poi in studio ha funzionato. Parte della composizione è stato scegliere con chi suonare.
Cosa vorresti realizzare nei prossimi dieci anni?
Mi interessano le terre di confine, e quindi mi piacerebbe avere collaborazioni con artisti che si interessano di musica del Mediterraneo, folk, popolare.