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Musica per la gente: intervista a Leonardo Radicchi

Musica per la gente: intervista a Leonardo Radicchi

24 giugno

È uscito da pochi giorni “Songs For People”, il secondo album di Leonardo Radicchi e del suo trio Arcadia, formato da Ferdinando Romano al contrabbasso e Giovanni Paolo Liguori alla batteria. Ospite d’eccezione il trombonista Robin Eubanks. Abbiamo chiesto al sassofonista e autore di tutti i brani dell’album di raccontarcelo.

Di Fabio Caruso

Cosa hai voluto trasmettere con “Songs For People”? Che significato ha?
“Songs For People” significa musica per la gente, ma potrebbe anche essere inteso come musica per il popolo o musica per le persone. Ogni brano nasce come suggestione legata a un tema del nostro contemporaneo; e ogni tema è per forza di cose caratterizzato da coloro che ne sono i soggetti, i protagonisti. Uomini, donne, ragazzi e ragazze, bambini e bambine. Il disco si apre con The Perils Of Indifference, una composizione articolata in diverse parti e dal sapore epico nel quale si riverberano storie e moniti di persone che oggi come nel passato ci mettono in guardia dall’indifferenza, dallo stare a guardare; perché l’indifferenza è sempre alleata degli oppressori e nemica delle vittime.

Ci sono molte storie in questo disco, da quella di Joseph Brant, capo Mohawk cantato dal romanzo di Wu Ming (Manituana), al coraggio di Carola Rackete (Sea Watcher); c’è il mar Mediterraneo, con il suo carico di speranze sulle rotte che lo attraversano, c’è un lattoniere di Kabul, c’è la speranza (The Hope) che non è passiva accettazione ma, citando il celebre adagio aristotelico, “è il sogno dell’uomo sveglio”. Su tutto però c’è la musica che penso possa veicolare le idee e le storie attraverso il suo particolare modo di agire oltre la nostra parte razionale.

Presentaci il trio Arcadia.
Arcadia è un band di jazz; questo oggi non è scontato. Perché il suono che abbiamo raggiunto non è la mera somma del mio sax accompagnato dal contrabbasso di Ferdinando Romano e dalla batteria di Giovanni Paolo Liguori. Quando ci siamo conosciuti è scattato qualcosa che ci ha fatto rendere immediatamente conto che c’era una naturale ricerca di un suono comune. Oggi, dopo tre anni di concerti e due dischi, penso che siamo stati molto fortunati a poter costruire un suono che rispecchia un’idea.

Com’è nata la collaborazione con Robin Eubanks ?
Robin è una leggenda del jazz e uno dei più grandi virtuosi del trombone. Gli ho scritto perché volevo fargli ascoltare quello su cui stavamo lavorando, avere la sua opinione. Qualche mese dopo abbiamo fatto il primo tour insieme e a quello ne è poi seguito un secondo, durante il quale abbiamo anche registrato questo nuovo album. Nel frattempo Robin si è trasformato in un mentore e amico e mi ha permesso di guardare le cose da un’altra angolazione. Alla musica certo, dal modo di comporre a quello di organizzare i suoni e pensare l’interplay, ma le nostre conversazioni e i nostri scambi non si sono mai limitati solo alla musica.

Quali sono le differenze, se ci sono, fra “Songs For People” e “Don’t Call It Justice”, primo album del trio Arcadia?
“Songs For People” è un ulteriore passo sulla strada che ho intrapreso a partire da “Don’t Call It Justice”. C’è la stessa voglia di usare il linguaggio di matrice jazzistica per raccontare il reale, il mondo che vedo intorno a me, con le sue contraddizioni, tragedie, ingiustizie, violenze, ma anche l’umanità nella sua accezione migliore. “Songs For People”, però, nasce da un approccio estetico e musicale abbastanza diverso.

Mentre nell’album precedente ero mosso dalla convinzione che solo esplorando tutte le possibili sfaccettature compositive, arrangiative ed esecutive del trio pianoless avrei potuto ottenere il risultato che cercavo, per questo nuovo lavoro ho deciso di partire dalle melodie, componendole spesso senza strumento.

Volevo andare alla ricerca dell’essenza di quelle emozioni e convogliarle in una semplice linea melodica che le raccontasse.

Per molti compositori credo che questo sia un processo scontato, per me invece è stato frutto di un percorso che dura da anni e sul quale ho ancora molto da lavorare e da imparare.

Per questo lavoro hai anche scritto le parti per sax e trombone. Quali sono i tuoi metodi compositivi? Sono cambiati nel corso degli anni?
Sì, continuano a cambiare, non penso ci si possa accontentare; ogni disco, ogni concerto, ogni prova sono solo la fotografia di un momento. Un preciso istante in cui cerchi di fare del tuo meglio con lo strumento. A volte funziona, a volte meno. Così cerchi sempre di ripartire dalle basi (suono, timing, articolazione) e ogni volta prendi una direzione un po’ diversa. Magari non radicalmente diversa ma abbastanza da sembrarti più vicina a quel che vorresti davvero suonare, a quello che davvero vorresti fosse ascoltato.

Come dicevo, le tecniche compositive sono solo mezzi attraverso i quali cerchi di arrivare all’essenza di quel che hai in testa. In questo disco ho semplificato al massimo la scrittura: melodie, a volte armonizzate, a volte in contrappunto, a volte all’unisono. Ho rinunciato a molti escamotage compositivi, cercando di suonare l’essenziale. Se le melodie raccontano storie, gli arrangiamenti e le armonizzazioni cercano di renderne l’ambientazione.

Se dovessi semplificare, direi che ho costruito la maggior parte dei brani come se scrivessi delle colonne sonore per brevi film. Prendiamo ad esempio Manituana, l’introduzione improvvisata – prima da me e Robin a cui si sommano poi Ferdinando e Giovanni Paolo – è a tutti gli effetti la presentazione del contesto, del paesaggio naturale e umano. Il brano poi continua, come in una colonna sonora, con il tema del personaggio principale, il capo Mohawk Thayendanegea (Joseph Brant). Il resto del brano segue lo sviluppo del romanzo di Wu Ming che lo ha ispirato, cercando di trasporre in musica le vicende narrate.

Ognuno degli otto brani dell’album ha una dedica speciale, Underground Railroad (For JWC) è dedicato, per esempio, a John Coltrane.
Sì, ogni brano è stato composto avendo in mente un preciso evento e i suoi protagonisti. Underground Railroad (For JWC) è dedicato alla vicenda della cosiddetta “ferrovia sotterranea”, un sistema di case sicure e percorsi segreti, ma soprattutto una rete di donne e uomini coraggiosi, che ha permesso a molti schiavi di scappare e liberarsi negli Stati Uniti di inizio ‘800. Ho cercato di evocare un suono che fosse rispettoso di quella storia e contemporaneamente avesse un impatto emotivo coerente. Poi come in un puzzle che si compone da sé, ho realizzato quanto forte fosse l’influenza di Coltrane, come Robin fosse un anello di congiunzione ideale, avendo suonato per anni nella band di Elvin Jones, e come, per la prima volta in un mio disco, non sentissi la necessità di omaggiare un artista suonandone un brano ma una mia composizione potesse essere sufficiente.

Siamo tutti debitori di Coltrane in un modo o nell’altro, ma io mi sento particolarmente legato a lui: non è solo uno dei maestri indiscussi del mio strumento. Ho passato buona parte dell’adolescenza ascoltandolo e cercando di imitarlo, fino a capire che se volevo davvero impararne la lezione dovevo smettere di scimmiottarne gli aspetti esteriori, il suono, l’articolazione; dovevo, invece, cercare di andare più in profondità. Questo brano è un piccolo – e certamente indegno – omaggio alla sua musica e alla sua visione di una musica proiettata fuori, nel mondo.

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