12 ottobre 2017
“Mino Legacy” (Crocevia di Suoni, 2017) è un’opera ambiziosa, un atto d’amore che Felice Clemente ha realizzato in debito di riconoscenza verso lo zio Mino Reitano e il nonno Rocco, ai quali deve la sua grande passione per la musica. Ne è nato un prezioso cofanetto che racchiude un cd, un dvd e un volumetto con il profilo critico del cantante calabrese, dal quale emerge il valore artistico ma anche umano di Reitano. Il sassofonista, attraverso il linguaggio a lui più congeniale, il jazz, pone l’accento sull’aspetto compositivo delle sue canzoni, riproponendole qui in versione strumentale. Accanto a lui in questo progetto Fabio Nuzzolese, Giulio Corini e Massimo Manzi. Abbiamo chiesto a Felice Clemente di raccontarci nel dettaglio questo suo nuovo lavoro.
Di Antonino Di Vita
Come nasce “Mino Legacy” e perché questo titolo?
Credo che ogni musicista abbia nella propria carriera un punto di partenza, qualcuno che lo ha ispirato o stimolato a intraprendere questo percorso. Io devo ringraziare mio zio Mino (Reitano) e mio nonno Rocco, a loro devo il mio amore per la musica. Ho pensato quindi di realizzare questo lavoro sia per ringraziarli di ciò che mi hanno trasmesso, sia per render giustizia a un artista che ha dato molto agli altri, e non solo in termini musicali. Mio zio ha scritto brani bellissimi, che ho immaginato da subito in chiave diversa da come erano stati concepiti originariamente, riproponendoli attraverso il linguaggio a me più congeniale, il jazz. Mi sembrava opportuno da parte mia rendere omaggio alla sua poetica, alla sua musica, dando inoltre la possibilità alle nuove generazioni di conoscere la sua opera. Il titolo deriva dal fatto che lui ha lasciato, sia in me sia in tutte le persone che lo hanno incrociato, una grande eredità umana e artistica.
Qual è il ricordo che hai di lui e quali valori ti ha trasmesso?
Dal punto di vista musicale mi ha trasmesso una grande dedizione al lavoro e una profonda disciplina. Era una persona che non lasciava nulla al caso, cercava sempre la perfezione in ogni brano. A volte mi rendevo conto, da musicista, che non c’era nulla da rifare poiché la canzone era già perfetta così, eppure lui non smetteva di provare e riprovare. Mi ricordo quando da bambino scappavo, per così dire, di casa e mi rifugiavo nello studio di registrazione di mio zio, che era a circa duecento metri da dove abitavo io, e lo trovavo spesso e volentieri, quando non era in tournée, a lavorare alle sue canzoni con una dedizione veramente incredibile, che mi ha sempre affascinato. Aveva studiato in conservatorio, pianoforte e violino: la sua cultura musicale era molto al di sopra della media rispetto alla maggior parte dei cantanti di quel periodo. Scriveva e interpretava i suoi brani, una cosa abbastanza insolita per l’epoca. Ricordo anche la voglia di condividerli con il pubblico, senza mai risparmiarsi sul palco. Nel dvd ci sono le immagini di un concerto inedito in provincia di Rimini attraverso le quali si può capire quanto fosse grande come artista e quanta umanità avesse. Era impossibile sentirlo stonare, aveva un controllo totale della voce e anche dello strumento, visto che suonava il violino e la tromba oltre che cantare. Dirigeva inoltre l’orchestra con lo sguardo, con una padronanza impressionante. Il pubblico lo ha amato e lo ama tutt’ora perché non si è mai tirato indietro durante i concerti. In questo senso ho appreso tantissimo da lui e credo di aver imparato a fondo la sua lezione. La musica è un mezzo per trasferire emozioni e diventa necessario per me condividerla. Mio nonno e mio zio mi hanno anche insegnato che l’umiltà e la sincerità sono le basi del vivere comune.
C’è un brano nel disco al quale sei più legato?
Non ce ne uno in particolare, poiché sono molto legato a tutti per un motivo o per l’altro. Ho composto la scaletta scegliendo non solo i brani più famosi come Una ragione di più, L’uomo e la valigia, Era il tempo delle more e La mia canzone ma anche pescando tra quelli meno conosciuti quali Eduardo, Ma ti sei chiesto mai e Vorrei, brani molto belli e profondi. Le idee e le scelte comunque le ho condiviso con Fabio Nuzzolese, che ha curato gli arrangiamenti. Lui è un bravissimo arrangiatore oltre che un grande pianista. Una selezione centellinata vista la vasta discografia di mio zio!
Avete scelto le canzoni che più si prestavano a un’elaborazione di tipo jazzistico?
Si, poiché non tutti i brani si prestano a essere trasformati. Ci tengo a precisare che le canzoni non hanno subito una sorta di “jazzificazione”: i temi originali sono stati elaborati trasportandoli in un dna jazzistico, come facevano i grandi musicisti del passato come Miles Davis, John Coltrane o Erroll Garner. Non ci siamo inventati nulla di nuovo, siamo rimasti nell’ambito della tradizione. L’idea è stata quella di portare la musica pop(olare), nell’accezione più nobile del termine e con la sua eredità melodica, in un dna jazzistico. La scelta è quindi caduta su quei brani che avevano una melodia che si potesse adattare a questo processo creativo. Mio zio, forse per i suoi studi in conservatorio, esibiva una scrittura fuori dai consueti standard dell’epoca. E quando una canzone è composta in un certo modo risulta più facile dargli una connotazione differente.
La titletrack, Mino Legacy, è l’unico brano originale presente sul disco.
Il brano chiude il disco in maniera molto personale ed è un’ulteriore dedica che ho fatto, con l’aiuto di Fabio Nuzzolese, a mio zio Mino, inserendo in questa traccia tutta la sua eredità. È il brano più jazz dell’album: c’è dentro quel culto della melodia che si riscontra nella grande tradizione jazz e, nell’introduzione, una mia improvvisazione libera che prende spunto dalla cellula tematica e che poi io trasformo portandola un po’ a spasso armonicamente.
Sei entrato in studio con i brani già definiti?
In realtà si, c’è dietro un lavoro di quasi un anno e mezzo a partire da quando abbiamo iniziato a progettare “Mino Legacy”. In principio ho condiviso le idee con Fabio e le abbiamo provate in duo, constatando che funzionavano già benissimo così. Poi abbiamo fatto alcune prove in quartetto prima di registrare per capire come sarebbero venuti i brani. C’è tanto di scritto e molto lavoro a livello d’arrangiamento, di conseguenza andavano provati prima di entrare in studio. Li poi abbiamo affinato i brani prima di registrarli, cercando di catturare il momento. I miei dischi li ho sempre incisi in presa diretta, altrimenti perderebbero di spontaneità.
Perché hai scelto di riproporre la canzoni in una veste esclusivamente strumentale?
Volevo esaltare soprattutto il lato compositivo di mio zio, evidenziare quanto la sua scrittura, come dicevo prima, non fosse mai banale o risaputa. Lui ha scritto anche per tantissimi artisti: Una ragione di più, per esempio, l’ha composta per Ornella Vanoni, ma pochi sanno che è sua. Inoltre ha scritto per Sylvie Vartan, Claudio Villa e tanti altri. E poi volevo far conoscere Mino Reitano alle nuove generazioni, visto che negli ultimi anni la sua figura è stata un po’ dimenticata dai media.
Oltre a rimarcare il valore compositivo della scrittura di tuo zio questo lavoro ne rivaluta anche l’immagine attraverso il profilo critico di Andrea Pedrinelli.
Andrea è un bravo critico musicale, ci frequentiamo da tanti anni, dai tempi del mio album d’esordio, “Way Out Sud” (Splasc(H), 2003). Quando gli ho proposto di scrivere un profilo critico di mio zio Mino (tra l’altro ha curato anche il montaggio del dvd) è stato contentissimo; lo ha conosciuto in passato e per questo mi è sembrata la persona più qualificata per scriverlo, partendo dagli inizi di carriera fino agli ultimi giorni di vita. Andrea ha evidenziato sia i lati più belli della sua carriera, con aneddoti anche inediti che io stesso ho scoperto leggendo il libro, sia le scelte sbagliate o comunque meno felici che credo possano essere d’insegnamento alle nuove generazioni di artisti. Sono molto contento del lavoro che ha fatto, di come ha approfondito la figura di mio zio Mino dandone un’immagine a trecentosessanta gradi in maniera lucida e sincera, riflettendo inoltre i cambiamenti culturali della società di quel periodo.
Quanto hanno inciso sulla riuscita di questo progetto i musicisti che ti affiancano e la scelta dello studio di registrazione, l’Artesuono di Stefano Amerio.
Moltissimo. Considero Massimo Manzi, oltre che un grande amico, uno tra i migliori batteristi in circolazione. Collaboro con lui dal 2003 e non riuscirei a suonare con nessun altro: è veramente strepitoso ed è presente in quasi tutti i miei dischi. Giulio Corini è un grande bassista con il quale collaboro da undici anni: l’ho scoperto nel 2006 ed è subito entrato a far parte del mio quartetto. Ho scelto tra i musicisti con i quali mi trovo maggiormente a mio agio e che, oltre a essere delle persone fantastiche, denotano una sensibilità e una cultura musicale più unica che rara. Per quanto riguarda Stefano Amerio ormai è da diversi anni che i miei dischi li registro presso il suo studio Artesuono. È l’elemento in più che fa la differenza, uno dei fonici più richiesti al mondo. Da molti anni collabora con l’etichetta ECM e ha registrato tantissimi dischi: quando vai a registrare da lui sei più che sicuro che il risultato sarà di alto livello. Inoltre registrare da Stefano a Cavalicco (UD) è quasi come andare in ritiro spirituale; durante quei giorni insieme abbiamo raccolto le idee e le energie per convogliarle verso un unico obiettivo. Abbiamo fatto al massimo due take, tre in alcuni casi, e in genere abbiamo sempre scelto la prima. Gli arrangiamenti avrei potuto farli io, ma volevo che per questo progetto ci fosse il top anche in questa fase della lavorazione. Ho trovato in Fabio Nuzzolese l’elemento ideale, un musicista con una conoscenza della musica a trecentosessanta gradi: dalla classica, al jazz, al pop (tra l’altro lavora anche per la Scala di Milano). Questo anche per avere un punto di vista più oggettivo visto il mio coinvolgimento diretto nel progetto.
Un cofanetto con un packaging così curato e ricco di contenuti (un cd, un dvd, un libro) sembra un po’ un azzardo di questi tempi.
Ultimamente c’è la tendenza, per risparmiare, ad abbassare il livello qualitativo dell’offerta, vuoi per la crisi vuoi per il fatto che i dischi si vendono poco. Questo progetto nasce innanzitutto come un atto d’amore: un omaggio a mio zio Mino ma anche una scoperta delle mie radici, una sorta di eredità. Una cosa importante dunque, che parla di me e della mia vita, delle mie origini, per questo non me la sono sentita di fare un lavoro che non fosse di altissima qualità. Un disco è qualcosa che resta per sempre e quando non ci sarò più parlerà di me. Volevo inoltre che fosse un progetto che andasse oltre le logiche di mercato. Mi aspetto grandi cose da questo lavoro, ce lo aspettiamo tutti, perché dietro di me ci sono tante persone che si sono impegnate moltissimo, dal grafico, Giorgio Angeletti, ad Andrea Pedrinelli, fino al produttore Marco Bassi, senza il quale non sarebbe stato possibile realizzarlo e che, oltre ad essere un caro amico e un amante della musica, è anche un promotore della cultura in generale. “Mino Legacy” rappresenta l’opera di tutta una squadra, stampatore compreso!
Conti di promuovere questo progetto anche all’estero?
Sicuramente si, mio zio Mino era molto amato all’estero, anche per come ha saputo trattare il tema dell’emigrazione, che lui ben conosceva. Il primo passo quindi è far conoscere “Mino Legacy” attraverso una serie di concerti. All’estero poi c’è un’attenzione particolare sia verso il jazz sia verso la melodia italiana, che apprezzano tantissimo, a differenza di noi, che spesso tendiamo a sminuirla!