21 febbraio 2023
Intervistiamo il musicologo Stefano Zenni, che ci racconta la ventottesima edizione del festival “MetJazz”, organizzata come sempre dal Teatro Metastasio di Prato, di cui è il direttore artistico. Stefano Zenni è uno tra i più autorevoli divulgatori della musica jazz in Italia: è stato fondatore e presidente della Società Italiana di Musicologia Afroamericana (SIdMA); insegna “Storia del Jazz e delle musiche afroamericane” presso il Conservatorio di Bologna; ha scritto diversi libri, tra cui I segreti del jazz (2008), Storia del jazz. Una prospettiva globale (2012), Che razza di musica. Jazz, blues, soul e le trappole del colore (2016), e monografie su Louis Armstrong, Herbie Hancock e Charles Mingus; tiene da anni le “Lezioni di jazz” presso l’Auditorium Parco della Musica di Roma, ed è stato nominato infine direttore artistico del Torino Jazz Festival.
a cura di Andrea Parente
Partiamo dal passato. Raccontaci come sei arrivato alla direzione artistica del festival “MetJazz” di Prato.
Fui invitato a metà degli anni Novanta a tenere delle conferenze nell’ambito del neonato festival, che allora era gestito da musicisti pratesi, tra cui il batterista Andrea Melani. Dopo due anni Melani mi disse che non fosse il suo mestiere e mi chiese se volessi dirigere il festival. Io, che non avevo mai fatto una cosa del genere, risposi di sì.
Focus sul presente. La XXVIII edizione del MetJazz 2023 è iniziata l’11 febbraio e si concluderà il 13 marzo. Cosa ci racconti a tal riguardo?
Il tema che attraversa la rassegna – tema che non è mai arbitrario – è quello del rapporto tra tradizione e innovazione, che nel jazz assume forme peculiari. Ed è un modo per inserire nella programmazione artisti storici e nuovi talenti, o per rileggere il passato in chiave contemporanea, o per esplorare sonorità che mescolano generi diversi.
Mirco Rubegni
La rassegna si articola in due sezioni, “official” e “off”, con un programma di otto concerti e due conferenze. Ci motivi tale scelta?
La sezione “off”, oltre a due conferenze, prevede in programma anche il concerto di Dario Cecchini al Centro Pecci. La sezione ufficiale ha luogo nelle sedi istituzionali (Teatro Metastasio e Teatro Fabbricone) e negli orari consueti, mentre la sezione “off” si tiene in altri giorni, altri orari e altre sedi, tra cui la Scuola di Musica Verdi, con proposte diverse dal classico concerto.
Cosa vuole esprimere il MetJazz nell’indicare con il suo titolo di quest’anno “Tra tradizione e innovazione”?
Che questa dialettica nelle musiche afroamericane funziona in modi molto diversi: dalla rottura con il passato al revival, ma in realtà vive soprattutto di una presenza della tradizione nell’innovazione. Nel jazz ciò che è nuovo è sempre una sorta di ripensamento della tradizione.
Mary Halvorson
Quali sono le difficoltà che si incontrano nella direzione artistica di una rassegna? Quali, invece, le gratificazioni più grandi?
Le difficoltà sono grandi, e non tutti se ne rendono conto. Il budget anzitutto: non solo quanti soldi avremo, ma ancor di più quando sapremo quale sarà il budget. Poi bisogna fare i conti con la struttura del festival: ad esempio ricevo venti proposte di grande valore, ma posso programmare solo otto o nove concerti; in più devo tener conto degli spazi disponibili, del budget, delle capienze, della varietà della programmazione, delle promesse fatte, dell’equilibrio tra nomi importanti e altri meno conosciuti, delle date disponibili. E molto altro ancora… Le gratificazioni più grandi arrivano invece quando vedi che il pubblico discute del concerto, quando la musica trascina, ma magari anche divide, quando gli ascoltatori hanno vissuto un’esperienza speciale e i musicisti condividono quell’emozione con loro.
Che responsabilità senti di avere nei confronti sia del MetJazz che del pubblico?
Il festival è un’impresa culturale, e dunque deve stimolare e produrre dibattito, contraddizioni, spazi per la creatività e la maturazione civile delle persone. La responsabilità è quella di continuare a fare un festival stimolante e di consentire al pubblico di confrontarsi con le contraddizioni della musica di oggi, sempre però nel segno della bellezza.
Quali sono le emozioni che si provano una volta iniziata la rassegna?
È difficile dirlo, ma forse lo sforzo principale è quello di evitare l’ansia.
Sabato 11 febbraio è iniziata la sezione “off” con una conferenza sul tema “Tradizione o innovazione? Come funziona il jazz” presso la Scuola di Musica Verdi. Ci racconti com’è andata?
Non dovrei essere io a dirlo, ma la sala era pienissima, la conferenza è stata molto applaudita. Ho provato a divulgare una sintesi tra filosofia della storia ed esempi jazzistici, da Charlie Parker a Jason Moran.
Lunedì 13 febbraio, invece, è iniziata la sezione “official” al Teatro Fabbricone con un doppio appuntamento: Mirco Rubegni, uno dei più brillanti trombettisti jazz italiani, e Gaia Mattiuzzi, giovane cantante e compositrice classica e jazz. Com’è andata? Come ha reagito il pubblico?
Anche qui non sono nella posizione di giudicare obiettivamente. Sala esaurita, molti applausi, i musicisti giustamente tesi perché presentavano nuovi progetti. Alla fine si rimane soddisfatti anche perché un festival riesce a offrire opportunità a simili talenti.
Gaia Mattiuzzi
Quali saranno i prossimi appuntamenti della rassegna?
Ci aspettano Peter Brötzmann in solo, il duo Tiziano Tononi/Emanuele Parrini, il quintetto di Leonardo Radicchi, il trio Anokhi di Cristiano Calcagnile, Mary Halvorson con il quartetto d’archi Mivos.
Leonardo Radicchi
Uno sguardo al futuro. Quali sono i tuoi prossimi progetti? Quali sono, invece, gli obiettivi che ti poni?
Escludendo libri in lavorazione, conferenze e gli impegni didattici, devo ricordare che durante MetJazz ci sarà la conferenza di presentazione del “Torino Jazz Festival”, per la cui direzione artistica ho da poco vinto il bando: un bel salto da un piccolo festival orgogliosamente contemporaneo a un grande festival con tutt’altri numeri, che ambisce però ad essere anch’esso specchio del presente. L’obiettivo finale per me è creare le condizioni perché la bellezza, le emozioni e la conoscenza di diffondano: ma è sempre un lavoro collettivo, e qui sta la ricchezza di queste esperienze.
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