Abbiamo intervistato a fine luglio Mario Ciampà, il direttore (tra altre mille attività!) del Roma Jazz Festival. Ne è venuta fuori una lunga chiacchierata sulla sua storia e sul futuro di questo importante evento musicale. Buona lettura!
di Eugenio Mirti
Come ti sei avvicinato al mondo della musica?
Per combinazione! Il jazz in effetti è entrato nella mia vita per tante coincidenze. Sono architetto, mi ero appena laureato e mia sorella era fidanzata con un bassista che amava suonare jazz. Aveva trovato un locale molto grande (400 metri quadrati), vicino al Colosseo, completamente distrutto, ma che costava poco. Siccome bisognava fare tutti i lavori all’interno lui mi chiamò e mi chiese se volevo occuparmi della ristrutturazione. Non avevamo soldi, eravamo in quattro e con la nostra fatica (in vari ruoli, da muratore a progettista) ci mettemmo un anno a ristrutturare lo spazio. I soci iniziarono a litigare prima dell’apertura, perché c’era chi amava il bop e chi il jazz caldo (New Orleans); dopo questi litigi il fidanzato di mia sorella mi disse che o lo rilevavamo o si buttava tutto via il lavoro e così con un certo sforzo ci buttammo nell’avventura.
Io non sapevo nulla di jazz, lui ne sapeva abbastanza poco e mi dovetti inventare questo mestiere. All’epoca praticamente non esisteva nulla a Roma, e quello che c’era era orientato sul mainstream: capii subito che bisognava aprire ai giovani e iniziai così a proporre delle scelte innovative… Braxton, Elvin Jones, David Murray… progetti molto particolari che ebbero un grande successo. Contestualmente capii anche la necessità della gente di imparare a suonare jazz.
E quindi apristi il Saint Louis.
Certo, ed ebbe così successo che dovemmo trovare un’altra sede! Pensa il lavoro che si faceva: di giorno era scuola e la sera doveva diventare club, quindi monta e smonta tutti i i giorni, pannelli che spariscono, attrezzature che si spostano! La domenica mattina si apriva il bar per fare teoria musicale! Così aprimmo un’altra sede, e poi ancora un’altra e iniziò il mio percorso che durò circa venti anni.
Nella gestione quando hai a che fare con quaranta insegnanti e un migliaio di allievi i problemi da risolvere tutti i giorni sono innumerevoli e provocano grande stress; in più c’era il locale e quindi la mia vita si svolgeva così: alle nove andavo in ufficio a preparare il materiale della scuola; intorno alle undici scendevo per preparare la scuola che apriva nel pomeriggio; verso le sette ero al locale per il soundcheck che comunque facevo io, insieme all’accoglienza musicisti. Un grande sforzo fisico, stress, stipendi da pagare per insegnanti e personale del locale (cinquanta persone…). Quindi molte volte mi chiesi se ne valeva la pena e dopo venti anni feci una pausa di riflessione. Poiché sono sempre stato appassionato di barche vendetti tutto ed ebbi l’occasione di partire per il giro del mondo in barca vela.
Ma, combinazione della, vita ebbi una telefonata mentre ero in Tailandia: mi avvisava che era nato mio figlio da una relazione che era stata temporanea. Così tornai indietro.
Cambiano le responsabilità.
Esatto; mi rimboccai le maniche e comprai il Roma Jazz Festival, una nuova avventura che è continuata fino ad adesso.
Raccontaci il tema della quarantesima edizione.
Poichè negli ultimi anni abbiamo sviluppato molti temi diversi, dall’economia alla letteratura al cinema, quest’anno sarà protagonista il “tema dei temi”: ogni concerto sarà dedicato a uno degli argomenti trattati negli ultimi anni. Vedremo come andrà, sarà sicuramente una grande sfida: del resto ho capito che il mio karma sono le sfide, o meglio portare avanti le sfide legate al fare cultura.
Ci puoi dire quali musicisti hai coinvolto?
Intanto ricordo che il festival si terrà dal 5 al 25 novembre all’Auditorium di Roma. Ci saranno tra gli altri Brad Mehldau in duo con Joshua Redman, Hamilton de Holanda in solo, Jacob Collier, John Scofield con il progetto sul country americano, Bruno Canino e Enrico Pieranunzi, Esperanza Spalding, Richard Galliano…
Qual è il tuo sogno nel cassetto, magari per la cinquantesima edizione?
Quello che ho cercato di fare in tutti questi anni è stato convincere le varie amministrazioni della città di fare in modo che Roma abbia un festival jazz di livello internazionale; io lo faccio ma non ci sono i soldi e manca il coinvolgimento della città. Penso che Roma se lo meriti, ce l’hanno Londra, Sarajevo, Madrid, Berlino… Roma è una città turistica e non hanno mai creduto a questo progetto, il focus sono i monumenti.
Qual è il concerto che ricordi con più divertimento?
Sono tanti, ma ricordo in particolare quello con Dizzie Gillespie. Preso all’aereoporto, la prima cosa che mi chiese era del fumo, che peraltro aveva lui pur avendo passato la dogana! Portato al teatro si volle fermare in cortile per farsi unaa canna, e poiché era inverno non si potevano aprire i finestrini ed era pieno di fumo, insomma a un certo punto arrivò una signora che disse “la macchina sta andando a fuoco uscite fuori!”. Tranquillizzata la signora scattò in Dizzie un effetto di fame chimica incredibile, così dovetti fare aprire un ristorante per permettergli di mangiare degli spaghetti, perché se no non avrebbe suonato!
Raccontaci il nuovo progetto “JazzHub”.
Nasce da questa osservazione: grazie alle scuole di musica e ai conservatori ci sono molti giovani musicisti molto bravi, e ci siamo chiesti come potranno essere inseriti nei festival e nei circuiti jazzistici senza manager o produzioni. Vivendo nell’era di internet ognuno deve fare per sé, da qui l’idea di JazzHub, un portale, una sorta di fiera di Brema che incontra Youtube, Linkedin, ecc., che dà ai musicisti la possibilità di promuoversi. La piattaforma non prende nessuna percentuale su vendite e simili: forniamo un servizio di connessione che viene pagato esclusivamente con la quota di iscrizione.