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Live At Acuto Jazz</br>Intervista a Lucia Ianniello

Live At Acuto Jazz
Intervista a Lucia Ianniello

27 febbraio 2017

Abbiamo intervistato Lucia Ianniello: la trombettista e compositrice ha di recente pubblicato “Live At Acuto Jazz”, un omaggio a Horace Tapscott e alla Pan Afrikan Peoples Arkestra (P.A.P.A.).

Di Eugenio Mirti

Come hai scelto i musicisti della formazione?
Per me è molto importante la qualità dei rapporti umani: in realtà non ho scelto i musicisti ma le persone. E la musica, che secondo me esprime la propria interiorità, non può che nutrirsi di ciò. Quando suono, il dialogo con gli altri musicisti è determinante e serrato, nei miei lavori l’improvvisazione ha un ruolo centrale. Spesso chiamo e chiedo determinati interventi dal vivo, ai colleghi sul palco, con richiami sonori ma soprattutto con sguardi e mimica che non hanno bisogno di particolari spiegazioni se ci si affida al feeling che ci unisce. In particolare, già a partire dal primo lavoro “Maintenant”, ho chiesto ai musicisti di suonare allontanandosi dal loro linguaggio abituale, e non ti nego di essermi dovuta scontrare con qualche resistenza. Ma i risultati sono stati incoraggianti e a volte sono nate delle magie che a tempo debito mi sono state riconosciute.

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Perché un progetto senza batteria?
Tranne rare eccezioni, i batteristi suonano troppo forte per i miei gusti e comunque ho anche provato ad inserire batteria e percussioni ma il risultato musicale non era quello che volevo. Mi sentivo stretta, ingabbiata, e poi ci si spostava in fretta in altri luoghi che non avrei voluto visitare, almeno questa volta. Ho capito subito quanto sia più impegnativo suonare senza il beat, sei costretto a tenere alto e costante un ritmo interiore e a condividerlo in silenzio con gli altri musicisti. Non è la mia estetica in generale, ma almeno in questo progetto la musica doveva creare immagini, scenari, colori e sentivo di poterlo fare più liberamente con una formazione cameristica. D’altra parte il tipo di improvvisazione collettiva che abbiamo sviluppato è un dialogo serrato ma non assordante. Le voci si alternano, si rincorrono, tacciono e riprendono seguendo esclusivamente l’esigenza espressiva o le mie richieste gestuali.

Ci sono tre brani tuoi originali: come lavori a composizioni e arrangiamenti?
Nella maniera più diversa, dipende dai casi, non c’è un metodo standardizzato. Maintenant è nata al pianoforte, l’ho subito arrangiata per una orchestra di 17 elementi e solo in seguito l’ho ridotta per una formazione più ristretta, e lungo il cammino ne ho cambiato la forma. Other è tutta improvvisata, in assenza di spartito. C’è la melodia, quella della tromba, e poi tutto quello che succede intorno è il risultato di una mia richiesta di massima e del contributo dei singoli musicisti. Our Summer sul primo disco è il risultato di sovraincisioni. Ho suonato con 2 trombe in Bb e C e flicorno, le tre linee superiori, lasciando la quarta voce al synth. Lo stesso brano apre il secondo disco live, in una versione completamente diversa. Infatti ha una sezione introduttiva aggiunta totalmente improvvisata, utilizzando materiale tematico, liberamente trattato dai singoli musicisti, nei limiti di mie specifiche indicazioni.
In generale, il lavoro compositivo nasce al pianoforte con carta e matita dopodiché proseguo utilizzando il software di scrittura musicale per gli arrangiamenti. In casi particolari, uso “immagini” per descrivere la struttura di un brano e lavoro senza spartito, solo con appunti sugli andamenti armonico-melodici.

Come già il tuo disco precedente “Maintenant” anche questo lavoro prosegue la ricerca musicale riguardo Horace Tapscott e la Pan Afrikan Peoples Arkestra (P.A.P.A.); come nasce e si sviluppa questo percorsp?
È una bellissima storia iniziata diversi anni fa, quando mi sono imbattuta in una intervista rilasciata da H. Tapscott nel 1987, in occasione del Verona Jazz Festival, nella quale parlava della sua visione della musica “contributiva e non competitiva” e di molte altre cose. Ho cominciato a studiare i libri di Steve Isoardi, il suo biografo, ad ascoltare la musica della P.A.P.A. Con l’Arkestra, sotto la direzione di Tapscott, hanno collaborato, tra gli altri, Red Callender, Sonny Criss, Billie Harris, “Butch” Morris, Arthur Blyte, Jimmy Woods, David Bryant, David Murray, Dwight Trible e molti altri.
Ho poi scritto la tesi di laurea del Biennio di Jazz, il mio relatore è stato Eugenio Colombo. In questa fase sono entrata in contatto con alcuni membri della Pan Afrikan e ho ricevuto i ringraziamenti dalla famiglia Tapscott.
Ho contribuito alla realizzazione di un filmato a scopo didattico, con estratti da una serie di film e documentari, realizzati dagli anni ’50 ad oggi, sulla vita culturale nella comunità afroamericana di Los Angeles che ho portato anche in un liceo, riscuotendo un discreto interesse da parte dei ragazzi. Sono molto contenta di questo lavoro, Tapscott e la P.A.P.A. hanno veicolato una visione non competitiva delle arti e del ruolo dell’artista, offrendo un’alternativa all’immagine ormai standardizzata della musica governata dalle leggi di mercato e orientata alla commercializzazione dei prodotti. Un solo rimpianto: non averlo conosciuto personalmente.

Definisci “Live At Acuto Jazz” con tre aggettivi.
Coraggioso, vitale, suggestivo.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Sto lavorando in Duo con il pianoforte per dei concerti che mi vedranno a giugno in Thailandia e in autunno in Germania. Contemporaneamente sto approfondendo gli studi classici che stimolano molto la mia ricerca compositiva jazzistica. Sto infatti scrivendo musica nuova per un prossimo disco che però è ancora lontano dall’aver preso forma.