Ultime News
L’importanza del “tenersi stretti”: intervista ad Antongiulio Foti
Photo Credit To Musacchio, Ianniello & Pasqualini

L’importanza del “tenersi stretti”: intervista ad Antongiulio Foti

21 febbraio 2022

Abbiamo intervistato il giovane pianista Antongiulio Foti, che ci ha raccontato il suo ultimo album “Hold Fast”, edito dall’etichetta Alfa Music, un disco che ci riporta al valore e al sentimento del “tenersi stretti”, nonché alle connessioni che creano straordinaria energia positiva e grandissima forza, quella di un giovanissimo musicista con una sua già personalissima e originale visione musicale, che guarda alla tradizione, ma con un occhio rivolto sempre al futuro.

a cura di Andrea Parente

Raccontaci in breve la tua storia. Come ti sei avvicinato al jazz?
Mi ritengo molto fortunato perché penso che la mia storia inizi dai miei genitori, che non sono musicisti, però in casa si è sempre respirata un’aria in cui la musica aveva una certa importanza. I miei genitori in particolare mi hanno sempre spinto e supportato fin dall’inizio: ho iniziato a suonare da piccolissimo, intorno ai cinque anni, focalizzandomi subito sul pianoforte. A sei anni mi piaceva già il jazz e l’improvvisazione, che mi veniva veramente spontanea sulla tastiera: qualsiasi forma musicale mi venisse proposta, tendevo sempre a sottoporla sia a variazioni che a evoluzioni. E così venivo puntualmente rimproverato, in maniera anche un po’ goliardica, dal mio primo insegnante, che aveva invece un background classico; oggi in realtà lui è uno dei miei più grandi fan. A otto anni mio padre mi iscrisse a un concorso di musica classica per bambini, in cui io presentai, invece, dei brani jazz: mi ricordo che suonai Take five e Fly me to the moon. Anno dopo anno poi ho partecipato ad altri concorsi, in cui risultavo sempre tra i vincitori con brani jazz. All’età di quattordici anni c’è stato poi l’incontro con Stefania Tallini, una grande pianista italiana che ha saputo destreggiarsi tra musica classica, jazz e brasiliana. Ho avuto la fortuna di studiare con lei per tutti gli anni della mia adolescenza, comprendendo meglio la natura del jazz. Stranamente mi sono avvicinato alla musica classica a quattordici anni, e da quel momento è diventata una forma di ispirazione, oltre che di studio. Sotto la guida di Stefania, ho anche scoperto la composizione, sviluppando dei criteri molto personali. Nell’album “Hold Fast” (Alfa Music, 2021) è presente uno dei primi brani che ho scritto, Tesseract.

Tu vivi e studi a New York, mecca della musica jazz, nonché metropoli con la più varia e brillante scena musicale del mondo. Come è iniziata questa straordinaria avventura nella Grande Mela e come ti ci trovi oggi?
A sedici, diciassette anni ho iniziato a frequentare delle clinics organizzate in Italia dalla Berklee, avvicinandomi ancor di più a chi il jazz lo aveva creato, gli americani, che mi hanno fatto crescere tantissimo. Ho vinto così la mia prima borsa di studio e sono andato a studiare a Boston l’anno successivo, sempre per un corso estivo, mentre proseguivo gli studi anche in Italia, e lì ho vinto altre borse di studio. La realtà americana mi ha formato profondamente perché ho studiato con degli insegnanti pazzeschi, come ad esempio Terri Lyne Carrington, Joanne Brackeen, Danilo Pérez e Avishai Cohen. Sono stato molto fortunato a trovare persone che mi hanno incoraggiato sempre di più. Una volta avute queste esperienze tra Newport e Boston ho deciso di trasferirmi a New York proprio per il college, scegliendo la Manhattan School of Music, dove adesso sto frequentando il quarto anno di studi. L’esperienza di New York è stata completamente life-changing: ovviamente è un rischio andare nella Grande Mela da “giovane” (musicalmente parlando), ma ho raggiunto un grado di consapevolezza tale per cui se da un lato cerco di portare il mio background, dall’altro desidero assorbire il più possibile quella che è un’atmosfera unica al mondo. Ho capito sin da subito che il valore di New York deriva dalle persone che ci vivono, e nel jazz questo valore è impressionante, con un circolo virtuoso che si autoalimenta costantemente. Il livello base è la sopravvivenza, in quanto c’è una rincorsa complessiva che in realtà ti spinge a studiare e a ricercare sempre di più. Infatti a New York ho trovato un valore che in Italia non ho mai percepito: la collaborazione incondizionata tra i musicisti, insieme al rispetto del lavoro degli artisti, a prescindere da tutto. Immagino che questi valori siano stati alimentati dall’ambiente della Manhattan School of Music: un Conservatorio “esclusivo” in cui non è molto semplice entrare, ma abbastanza grande per garantire un’infinita combinazione di suoni, con un livello molto alto dei musicisti e il grandissimo piacere di poter suonare con tutti, dal primo all’ultimo. La cosa che più mi ha reso felice è il supporto assoluto che si riceve nell’ambiente, non solo dagli studenti o musicisti affini, ma anche dai più grandi: da Stefon Harris, a Phil Markowitz e Buster Williams. Per quanto siano giusti, per quanto siano anche freddi talvolta, per quanto siano distaccati apparentemente, creano un sistema di propulsione comunitaria che è unica al mondo.

Come hai affrontato e stai superando il periodo della pandemia?
Così come per tutti, è stato e continua ad essere un periodo molto difficile. Per dare un’idea cronologica, l’album “Hold Fast” è stato registrato il 6 marzo del 2020. L’8 marzo c’è stato il lockdown generale, e mi sono ritrovato in una situazione assurda perché sono tornato da New York per l’ultima sessione di registrazione e poi sono rimasto bloccato in Italia, completando il mio secondo anno accademico on-line. Questa situazione ha evidenziato quanto la componente della “distanza” non appartenga alla natura stessa della musica. C’è da dire che per quelli che erano nella mia stessa situazione, ovvero musicisti professionisti che però stanno compiendo anche un percorso di studio al Conservatorio, è stato più facile perché siamo potuti comunque andare avanti e abbiamo potuto procedere nel nostro percorso senza troppi scossoni, a differenza di artisti che si sono dovuti fermare nel pieno della loro carriera professionistica. Di conseguenza, immagino che per alcune persone questa pandemia abbia rappresentato veramente un disastro. Io invece avevo la mia stanza alla Manhattan School of Music, con il mio Steinway & Sons, e così ho continuato a studiare e crescere. La cosa buffa è che il mio album “Hold Fast” è nato prima della pandemia e tra i suoi tanti significati c’è quello di “tenersi stretti”: da un punto di vista musicale invito l’ascoltatore a tenersi stretto a quello che riesce ad afferrare, senza necessariamente venire sopraffatto dalla musica.

Parliamo appunto di “Hold Fast”, il tuo ultimo lavoro discografico, pubblicato dall’etichetta Alfa Music nel 2021. Come vi siete conosciuti con i discografici Fabrizio Salvatore e Alessandro Guardia?
L’Alfa Music mi ha conosciuto fin da piccolo, da quando a quattordici anni ho iniziato a studiare con Stefania Tallini. Lei mi ha presentato ai discografici Fabrizio Salvatore e Alessandro Guardia, che sono stati subito molto entusiasti di me e mi hanno supportato tantissimo. Loro sono incredibili e mi hanno fatto partecipare a diverse rassegne: ho suonato alla Casa del Jazz, dove ho conosciuto Ettore Fioravanti (che suona la batteria in “Hold Fast”), e poi anche al Jazzit Fest a Collescipoli, dove ho suonato nel concerto di Enrico Intra. L’incontro con lui è stato fenomenale, e un brano che ho interpretato in quell’occasione è stato incluso nel disco realizzato per festeggiare i suoi ottant’anni, “Enrico Intra 80”. Fabrizio e Alessandro mi hanno sempre fatto un sacco di sorprese, tra cui appunto questa. Con Enrico Intra poi c’è stata anche la mia prima esperienza orchestrale: sono andato a suonare a Milano e una mia composizione è stata arrangiata dall’Orchestra della Civica Scuola di Musica Claudio Abbado, e il bello è che all’epoca neanche mi rendevo conto di tutte le cose straordinarie che mi stavano succedendo.

La cosa interessante è che tu hai descritto il disco come “la magia dell’incontro tra generazioni con diverse storie”. Com’è stato lavorare con Jacopo Ferrazza, Ettore Fioravanti, Daniela Spalletta e Rosario Giuliani?
È stato incredibile. Io mi trovavo in sala di registrazione e avevo davanti a me Rosario Giuliani, uno dei più grandi, se non il più grande sassofonista italiano. Rosario stesso era uno di quegli artisti con cui sognavo di realizzare un disco. Il bello è che le “diverse generazioni” non erano l’idea iniziale di “Hold Fast”: io pensavo di realizzare un progetto diverso, al massimo bi-generazionale. Quando poi, grazie a un bando SIAE, si è presentata la possibilità di collaborare con questi musicisti che già avevo incontrato precedentemente, la cosa incredibile è stata che ognuno di loro suonasse la musica che io avevo in testa; questa cosa ancora fatico a realizzarla. In realtà un brano non finisce mai la sua vita: oggi, a quasi due anni dalla registrazione dell’album, io lo suono in maniera già diversa, e ognuno dei brani della tracklist presenta sfumature sempre diverse con il tempo che passa. Ed è stato fantastico avere la possibilità di interagire insieme a questi grandi artisti con un background così diverso dal mio. Non era proprio il loro pane quotidiano suonare quei tipi di brani, però hanno comunque dato qualcosa in più, con un grande impiego di energia collettiva da parte di tutti quanti. Registrare in studio con loro è stata un’esperienza che mi ha insegnato tantissimo, dato che sono alcuni tra i musicisti migliori che abbiamo in Italia, e ringrazio il momento in cui ho deciso di prepararmi come si deve per arrivare a condividere insieme a loro questa grandissima energia, come quella incredibile di Rosario Giuliani durante le sessioni di registrazione, o come quella trasmessa da Ettore Fioravanti e Jacopo Ferrazza al live di presentazione del disco: quando si fa una performance l’energia è diversa da quella che si esprime quando si suona per se stessi, o quando si suona in studio. Si percepisce proprio una spinta differente, e nel momento in cui tutte queste energie musicali si incontrano insieme, nello stesso posto, si crea un qualcosa di nuovo, un qualcosa di unico e di molto speciale.

Ultimamente ho apprezzato molto il disco di Daniela Spalletta “Per Aspera Ad Astra”, e ho notato una certa sinergia tra i vostri lavori discografici. La sensazione che ho avuto ascoltando “Hold Fast” è stata quella di un forte vento energetico, sostenuto da una continua ricerca musicale e introspettiva. Un “viaggio” intriso di cultura africana del Mediterraneo e di esperienze di vita americana, con uno sguardo proiettato al futuro. Come hai sviluppato il percorso narrativo del disco?
Intanto, mi fa molto piacere che tu abbia avvertito una continuità tra “Per Aspera Ad Astra” e “Hold Fast”, anche perché l’album di Daniela Spalletta è piaciuto molto anche a me. Il bello è che Daniela l’ho conosciuta con il progetto “D Birth” (Alfa Music, 2015), il suo esordio discografico, che ha acceso in me il desiderio di voler collaborare con lei, dato che la considero una straordinaria cantante. E così è stato anche con “Hold Fast”: il suo spirito nell’album è stato fondamentale, data la sua incredibile versatilità. L’album rappresenta, nel complesso, il viaggio in tanti meandri della mia ricerca musicale: ogni brano è una cristallizzazione di un mio piccolo bacino di ricerca. La “suite mediterranea” – rappresentata dai brani quattro e cinque del disco – è volutamente messa al centro del percorso narrativo dell’album, e costituisce un modo per racchiudere due brani in uno. Il primo è Seikilos, una mia elaborazione di quello che è l’Epitaffio di Sicilo, cioè la melodia greca più antica che ci sia mai pervenuta. Ho sentito l’esigenza di incidere quella che io percepivo potesse essere una concretizzazione di questo antico canto greco. Canto che si tuffa con continuità nella traccia numero cinque, Mediterraneo, l’unico brano non originale del disco: è una canzone scritta da Pino Mango e Mogol, che mi ha sempre trasmesso un’idea unitaria e comunitaria del Mediterraneo. Io che vengo dalla Calabria e dalla Sicilia, dallo Stretto di Messina, sento particolarmente questa provenienza, questo background mediterraneo, oltre che la vicinanza tra le adiacenti sponde culturali. Infatti, grazie all’aiuto di alcuni colleghi e amici, ho deciso di tradurre in turco e in arabo il brano Seikilos, scritto in greco antico: Daniela, infatti, canta non solo in greco antico, ma anche in turco e in arabo. Ho voluto passare per le radici culturali del Mediterraneo per poi tuffarmi nella sua modernità, in quello che è oggi.

Che progetti hai per il futuro?
Concludo il “viaggio” dell’album per parlarti di quello che ho in mente per il futuro. L’album si conclude con Mokongo Ma’ Chevere, che è un brano di ispirazione Abakuá. La cultura Abakuá è una musica-religione afro-cubana, che mi ha conquistato tra le tante cose che ho studiato vivendo a New York, città che conferma di essere sempre uno dei veri centri musicali del mondo, dove si ha l’opportunità di essere continuamente esposti a tantissime culture. Qui mi sono addentrato nella ricerca della musica sud-americana e centro americana, scoprendo che ci sono tantissime subculture afro-cubane nell’isola di Cuba. Negli Abakuá c’è un legame indissolubile tra musica e religione, che mi ha profondamente affascinato, e loro concludono i propri canti dicendo «Mokongo Ma’ Chevere». Così ho deciso di chiamare nello stesso modo l’ultimo brano del mio album, già ricco di influenze ritmiche e melodiche caratteristiche di questa cultura. Questo brano stacca un biglietto per viaggi futuri, e tra i progetti a venire ce ne sarà di sicuro uno sul ritorno alle radici del jazz e della musica di derivazione africana, come molte forme musicali in Brasile, a Cuba, anticamente in Louisiana, tra cui si possono trovare sorprendenti somiglianze. I miei studi musicologici mi hanno ricondotto poi nell’Africa dell’Ovest, attorno alle cui culture realizzerò un progetto importante, non casuale ed estremamente connesso con la realtà che viviamo oggi nel rapporto con dei popoli che sembrano lontani, ma che spesso sono invece affini a noi più di quanto possiamo immaginare. Ma in un futuro ancor più vicino sono molto entusiasta di poter lavorare a un altro progetto per cui sto sviluppando una varietà di timbri e suoni, partendo da Seikilos (quarta traccia di “Hold Fast”), ma non dirò altro. Probabilmente sorgerà a cavallo tra New York e l’Italia, ci saranno alcuni elementi innovativi e concettualmente la Terra avrà un ruolo molto importante.

E il tuo futuro prevede più l’Italia o l’America?
Malgrado le mie strade aperte negli Stati Uniti, non perderò mai il mio piede ben saldo in Italia. E questo grazie alle persone che mi supportano, che hanno ascoltato “Hold Fast”, e ai professionisti del mondo della musica da cui ho ricevuto un gradito e talvolta inaspettato supporto. E ovviamente ad Alfa Music. Tutti insieme stiamo lavorando per vedere “Hold Fast” e questi meravigliosi musicisti on the road presto. Teniamoci stretti.

INFO

www.antongiuliofoti.com

Abbonati a Jazzit a soli 29 euro cliccando qui!