6 aprile 2022
Intervistiamo la contrabbassista e compositrice Ilaria Capalbo, musicista napoletana che vive stabilmente a Stoccolma dal 2019. Recentemente è uscito il suo primo album da leader, dal titolo “Karthago”, pubblicato dalla Bluenord Records. Un album che l’ha condotta verso la piena consapevolezza di se stessa e di un’identità musicale ben precisa.
a cura di Andrea Parente
Cara Ilaria, ci racconti in breve com’è nata la tua passione per il jazz?
Quasi per caso. Dopo gli studi classici, ho cominciato a suonare il basso elettrico. Da lì al contrabbasso il passo è stato breve, e guidato in particolare dall’ascolto dei dischi in trio di Bill Evans e da alcuni concerti del Pat Metheny Group.
Photo Credit To Massimo De Dominicis
Qual è stata la motivazione che ti ha portato a trasferirti da Napoli a Stoccolma?
Ho avuto modo di conoscere la città perché ho frequentato l’ultimo anno del mio Master presso il KMH – Royal College of Music di Stoccolma nel 2017/2018. Sono poi successivamente tornata in Italia, ma mi ero già inserita nella scena locale. Ho preso quindi la decisione di ritornare in Svezia, stavolta in modo permanente, nel 2019. Vivo a Stoccolma da allora.
“Karthago” (Bluenord Records, 2022) è il tuo primo album da leader. Che emozione si prova?
Sono molto felice. È stato un lavoro lungo, portato avanti per due anni che sono stati globalmente molto difficili per la comunità artistica. C’è sicuramente la soddisfazione di essere riusciti in quest’impresa, e in particolare di averlo fatto per la prima volta in un paese diverso da quello da cui provengo, con musicisti che ho avuto l’opportunità di incontrare e conoscere a fondo. Ciò che mi rende più felice però è la consapevolezza di aver creato una musica che mi rappresenta, e di essere riuscita a coinvolgere gli altri nella mia visione.
Artwork di Gabriele Cernagora
Che significato ha il titolo? Come hai sviluppato il percorso narrativo del disco?
Ho scelto la storia di Cartagine come simbolo di resistenza e al contempo di vulnerabilità. Nel disco essa diventa una metafora per rappresentare il coraggio di seguire una propria visione. In un certo senso questo disco è per me uno spartiacque tra un’epoca e un’altra, il cui passaggio è avvenuto in molti modi diversi, che credo mi abbiano in ultimo portato alla definizione di una precisa identità. È stato un processo graduale, in cui una parte è stata inevitabilmente rasa al suolo come l’antica città, ma allo stesso tempo sono anche emerse una chiara direzione artistica, delle metodologie efficaci e una nuova consapevolezza in termini di leadership. Ho sviluppato il percorso narrativo a partire da questi temi, per poi esprimerli con la selezione degli strumenti, degli ensemble (duo, quintetto e settetto) e non in ultimo dei musicisti che ho scelto.
Cosa ti ha motivato nello scegliere Thomas Backman, Fredrik Nordström, Andreas Hourdakis e Fredrik Rundqvist come collaboratori del disco?
Ho avuto modo di incontrarli e di suonare con loro negli ultimi due anni, e sin da subito è stato evidente che con ciascuno di essi ci fosse una grande intesa musicale. Sono a mio avviso tra i musicisti più creativi della scena svedese, e ognuno di loro ha un preciso carattere: rappresentano individualmente una diversa parte della storia che è “Karthago”. Thomas e Fredrik sono il primo fronte e la centrale d’energia di questo gruppo: con un arsenale di fiati a loro disposizione, si muovono liberamente attraverso le forme e agiscono insieme da sezione. Andreas condivide le mie radici mediterranee (ha origini greche, dell’isola di Creta) e ha un suono inconfondibile, luminescente. Fredrik costituisce una colonna ritmica allo stesso tempo sensibile e affidabile. Sono tutti molto attivi nei propri progetti, che consiglio vivamente al pubblico italiano di ascoltare!
La tua formazione è un quintetto. Cosa ha significato questo a livello timbrico, espressivo e di arrangiamento?
È una formazione dalle grandi potenzialità. La presenza di due legni, invece che la più tradizionale combinazione con un ottone, dà al suono del gruppo una tessitura particolare. Thomas e Fredrik suonano dal vivo rispettivamente sax alto, clarinetto e clarinetto basso e sax tenore, baritono e flauto alto, quindi le possibilità con le quali sperimentiamo sono veramente numerosissime. In molti dei brani sono presenti movimenti strutturati anche insieme alla chitarra, che espande l’armonia aggiungendo una terza voce. Dal vivo spesso suddividiamo le combinazioni dei musicisti in ulteriori piccoli insiemi, e il gruppo quindi può suonare anche come un classico trio, come un duo e come una piccola orchestra.
Come suona questo disco dal vivo? Lo hai già presentato al pubblico? Se sì, come ha reagito?
Abbiamo presentato ufficialmente il disco il 12 gennaio da Fasching, il jazz club per eccellenza in Scandinavia. È stato quello un periodo di recrudescenza delle restrizioni, ma la risposta al concerto è stata comunque ottima. Poi è partito un release tour che coinvolgerà diversi paesi europei, con un concerto al Jazzstudion di Umeå (nel nord della Svezia). In generale, trovo che il pubblico reagisca molto bene rispetto all’atmosfera che riusciamo a creare sul palco. In qualche modo, la carica simbolica di questa musica riesce a passare da noi alle persone in sala, e questa è una cosa meravigliosa. Le personalità dei musicisti in questa band sono molto diverse, e direi complementari: questo aiuta a creare un mix di energie che credo arrivi forte e chiaro.
Come ti stai trovando a Stoccolma? Che jazz si respira lì? Che differenza c’è con quello italiano?
Questa è una domanda che richiederebbe una lunghissima risposta! Mi trovo bene, anche se, venendo da una città come Napoli, a volte fatico a trovare un equilibrio tra il mio modo di vedere le cose e quello che appartiene a una cultura così diversa. A Stoccolma (e in tutto il paese in generale) c’è movimento in termini culturali, ed è possibile ascoltare musica di diversa natura, dall’improvvisazione radicale al jazz più mainstream, ai progetti originali. Come in Italia, ci sono moltissimi musicisti di spessore. C’è forse una maggiore propensione alla sperimentazione, soprattutto da parte degli organizzatori.
Photo Credit To Paolo Soriani
Quanto influiscono le tue origini partenopee nel tuo modo di comporre musica?
Non so se si possa realmente parlare di influenze geografiche nel caso della mia musica. Credo che una grande influenza provenga dagli ascolti che ho fatto nel corso degli anni, dagli studi classici e poi da quelli di jazz, e in generale dall’esposizione a una grandissima quantità di musica di ogni genere. Quando scrivo musica in realtà mi ispiro molto anche alla parola scritta, al paesaggio, alle persone. Mi piace comporre avendo un filo narrativo, un riferimento emotivo a cui possa mirare con il suono. Nel caso di “Karthago” questo processo diventa evidente, ma anche in un mio precedente album, “Invisible Atlas”, realizzato in collaborazione con il pianista Stefano Falcone, vi sono tracce dello stesso modo di comporre che si è evoluto nel tempo.
Photo Credit To Massimo De Dominicis
Che progetti hai per il futuro?
Per la primavera e l’autunno di quest’anno ho in programma diverse date europee per la presentazione di “Karthago”, che abbiamo riunito in un release tour. Sarà possibile ascoltarci anche in Italia: il 26 marzo abbiamo suonato alla Grande Notte del Jazz al Teatro Comunale di Brescia, il 7 aprile saremo a Napoli all’Ex Asilo Filangieri e l’8 aprile a Roma alla Casa del Jazz. Nel 2021 ho collaborato inoltre con la compagnia di danza svedese Cullberg, e quest’anno approfondirò l’interazione tra musica improvvisata e danza contemporanea per un nuovo progetto di composizione.
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