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“Jungle Corner”, un tributo alla musica di Miles Davis. Intervista ai Bright Magus

“Jungle Corner”, un tributo alla musica di Miles Davis. Intervista ai Bright Magus

20 ottobre 2023

Intervistiamo il bassista Giovanni Calella e il batterista Leziero Rescigno, ovvero i leader dei Bright Magus, i quali ci raccontano “Jungle Corner”, il loro album d’esordio pubblicato il 22 agosto dall’etichetta discografica Irma Records. Il disco sarà disponibile dal 27 ottobre sulle piattaforme di streaming digitale e in formato fisico (cd e vinile).

a cura di Andrea Parente

Buongiorno Giovanni e Leziero e benvenuti su Jazzit. Siamo curiosi di conoscere i vostri percorsi musicali. Come si sono evoluti nel tempo?

G: Ho sentito un’attrazione verso la musica già da piccolino, e avendo la fortuna che mio padre suonasse, ma solo per passione, ho sempre visto strumenti musicali girare per casa e pian piano mi sono messo a giocare con loro… Poi la vera folgorazione è arrivata all’età di sedici anni, quando ho sentito per la prima volta il riff di Whole Lotta Love… in quel momento preciso, ho deciso che mi sarebbe piaciuto suonare la chitarra! Quella forza evocativa che mi catturò allora, l’ho poi riscoperta nuovamente mille volte ascoltando tanta altra musica, a cui ho aperto poi definitivamente le porte.

L: Ho iniziato a suonare la batteria a diciassette anni, avendo già maneggiato precedentemente qualche altro strumento, come la chitarra, il flauto… ma nulla che mi coinvolgesse come poi è stato con la batteria. Dopo le prime esperienze in band di matrice rock, new wave e pop, ho sentito la necessità di approfondire le conoscenza e il linguaggio di uno strumento che per me era ancora tutto nuovo e da scoprire. Lo studio della batteria mi ha aperto un mondo: mi ha avvicinato al jazz e ha acceso in me una forte curiosità verso tanti altri aspetti della musica, mi ha portato a sconfinare nello studio dell’armonia, della composizione e dell’arrangiamento. Questo tipo di background mi ha permesso così di diventare un musicista più completo e di assumere nel tempo diversi ruoli nelle produzioni discografiche, restando però sempre connesso con l’attitudine ritmica.

Come vi siete conosciuti? Perché avete deciso di collaborare insieme?

G: Ci siamo conosciuti a Milano, credo, tramite quei romantici annunci attaccati alle bacheche. Fin da subito, abbiamo capito che avessimo tante cose in comune, oltre alla musica che ci piaceva: Maradona, Totò, il cinema e, ovviamente, i dischi di Miles Davis. Abbiamo iniziato a fare musica insieme e nel corso degli anni abbiamo firmato parecchi progetti, spaziando tra i vari generi che ci hanno sempre influenzato: rock e krautrock, elettronica, pop, musiche per coreografie e tante idee nate teorizzando suoni e poi realizzate. Abbiamo creato anche uno studio dove registriamo, produciamo e mixiamo, il Diabolicus Studio a Milano.

Da quello che ho capito, vi lega la viscerale passione per Miles Davis. Come siete arrivati a formare i “Bright Magus”? Ci presentate i componenti del gruppo?

G: Parecchi anni fa io e Leziero avevamo un trio già ispirato al lavoro elettrico di Davis. Essendo composto solo da chitarra, basso e batteria, il sound che veniva fuori era più virato verso l’indie o il krautrock, ma l’embrione principale partiva sempre comunque dai dischi elettrici di Miles.

L: Abbiamo pensato spesso di concepire musica ispirata al suo periodo più eclettico e psichedelico, quello delle registrazioni per la Columbia dal 1969 al 1972. Album come “In a Silent Way”, “Bitches Brew”, “A Tribute To Jack Johnson”, “On The Corner”, “Big Fun” ci hanno fatto immergere in uno degli esperimenti più affascinanti che Davis abbia realizzato nel suo lungo percorso di ricerca e sperimentazione. Parliamo di musica difficilmente inquadrabile in un genere: in questi capolavori si respira la contemporaneità di quel periodo storico, si ridefiniscono i confini tra le contaminazioni, si allarga lo spettro visibile di questo suono multicolore. Jazz elettrico, funk, psichedelia, rock, afrobeat, ambient, ti trascinano in qualcosa di assolutamente unico, misterioso e a volte furioso. Questa fascinazione ‘’antica’’ l’abbiamo condivisa con Alberto Turra (chitarra), Mauro Tre (piano Rodhes e organi) e Gianni Sansone (tromba), che hanno risposto con entusiasmo al nostro ‘appello’. Quando ci siamo trovati è stato subito chiaro che avessimo qualcosa da raccontarci.

Cosa vi ha spinto a chiudervi in uno studio e, di conseguenza, a registrare un disco?

L: Dopo le prime session in quintetto, ci siamo resi conto che quel sound che io e Giovanni avevamo immaginato e cercato, si fosse materializzato con una spontaneità disarmante. Alberto, Mauro e Gianni avevano nel DNA quelle sonorità e la giusta attitudine. È stata una conseguenza naturale pensare che dovessimo fare qualcosa di più, che andasse oltre le session d’improvvisazione.

Cosa ci raccontate in “Jungle Corner”, il vostro album di esordio? Perché questo titolo? Come avete sviluppato l’iter narrativo del disco?

L: Dopo alcuni incontri nell’home studio del trombettista Gianni Sansone dove, con l’aiuto di Tullio Treffiletti, avevamo registrato diverse ore di improvvisazione abbastanza radicale, sentivamo la necessità di strutturare qualcosa di più compiuto. Mauro ci ha proposto alcune sue composizioni, e intorno a questi input sono nate A Way, Long Legs e Lullaby For My Father. È stato molto importante mettere giù dei ‘punti fermi’, sui quali si è sviluppato il suono dei Bright Magus. “Jungle Corner” è un omaggio a “On The Corner” di Miles Davis. L’album ha moltissimi momenti di improvvisazione pura, Jellow Interlude ne è un esempio.

G: “Jungle Corner” racconta un grande tributo alla musica di Miles Davis. Anche se i brani sono originali – a parte Selim/Miles – il sound e il processo creativo sono ispirati a quel modo di fare musica. Volevamo essere liberi nei movimenti, per cui tutto è iniziato suonando liberamente, improvvisando e cercando di tenere in aria la palla. La registrazione è solo uno scatto di quel momento, i brani li suoniamo sempre in maniera diversa, è proprio questo lo spirito del progetto.

C’è un brano del disco che mi ha particolarmente colpito, ed è proprio il primo: Selim/Miles. È abbastanza inusuale trovare un biglietto da visita di poco più di dieci minuti, ma i primi introspettivi tre minuti mi hanno convinto a “restare” e a godermi il resto. La seconda parte del brano mi ha ricordato tantissimo, oltre che il buon Miles, anche la parte psichedelico-funk di “Echoes” (Parte 1) nel celebre “Live At Pompeii” del 1972. So che il paragone potrebbe sembrare azzardato, ma mi avete condotto proprio in quel mood, ovvero in un ambiente sonoro impervio ma ben definito, dove non capisci fin da subito dove stai andando, ma sai per certo che la strada è quella. Cosa ne pensate al riguardo? E, soprattutto, cosa avete cercato di dimostrare, in primis a voi stessi, con “Selim/Miles”?

G: Il paragone con “Echoes” ci lusinga tantissimo!! In realtà è uno dei miei dischi preferiti e, guarda caso, fa parte di quel magico periodo dei primi anni Settanta, in cui le esplorazioni sonore del pop lasciavano spazio a dilatazioni oniriche. La nostra intenzione infatti era proprio quella di ricreare una condizione sonora nella quale gli strumenti fossero coinvolti in un dialogo costante, senza che nessuno in realtà guidasse la linea principale, quindi che presupponesse anche un po’ il concetto di musica ambient, ovvero l’idea del mood sonoro, un‘immagine, un fotogramma che all‘apparenza è statico ma in realtà continua a cambiare.

“Jungle Corner” è un disco composto da sei brani originali, tutti strumentali. Cosa ha significato questo in termini di interplay, composizione e arrangiamento?

L: Come ti accennavo, dopo alcune session di improvvisazione radicale, ci siamo resi conto che certe suggestioni sonore arrivassero senza particolari difficoltà, tutti conoscevamo la materia prima e ci siamo divertiti a rimescolarla liberamente, mantenendo intatte le nostre personali caratteristiche espressive e creative. Non ci sono molti ragionamenti da fare su che tipo di armonie avremmo dovuto sviluppare, o su che tipo di pulsazioni ritmiche dovesse avere l’album, forse per quanto riguarda l’aspetto dell’interplay ci siamo detti qualcosa sul concetto di ‘sound corale’.

Considerando che siete un quintetto e che il disco è caratterizzato da tutta una serie di influenze musicali (jazz, funk, rock, avant e psichedelia), come siete riusciti a trovare il vostro equilibrio?

G: Equilibrio, per me, è anche sinonimo di precarietà… cioè qualcosa che in quel momento sta in piedi ma potrebbe cadere con poco. Credo che questa sensazione sia molto ricercata nel nostro suono. Il rischio di andare liberi ci mette di fronte anche a delle situazioni che non conosciamo e che potrebbero finire nel nulla oppure approdare a momenti entusiasmanti. Ognuno di noi ha nel suo DNA uno stile e un gusto frutto di anni di ascolti e di musica suonata, gli ingredienti per il momento stanno funzionando perfettamente.

Il 18 agosto è uscito in radio e in digitale il singolo Long Legs, un brano strumentale molto denso e trainante, a tratti profondo e riflessivo. Perché tale scelta? Come ha reagito il pubblico? Avete anche avuto modo quest’estate di presentare il disco in giro? Che reazioni avete colto?

G: La scelta è caduta abbastanza spontaneamente su uno dei brani più corti in verità. Oltretutto questo brano, che nasce come altri da un tema scritto da Mauro Tre, ha delle caratteristiche sonore ben definite: c’è un tema introduttivo abbastanza diretto e cantabile, il ritmo è frenetico e incalzante, e in più c’è al centro del brano un dimezzato musicale che aggiunge, a mio avviso, ancora più groove. Infatti anche dal vivo è un brano molto coinvolgente, proprio per la sua natura un po’ selvaggia e smaccatamente rock-jazz. Il pubblico di fronte al quale abbiamo suonato ha dimostrato finora molta curiosità e divertimento nel partecipare con noi a queste improvvisazioni.

Uno sguardo al futuro. Dove può arrivare questo disco? Quali sono i vostri progetti?

L: Non sappiamo dove potrebbe arrivare questo disco, non ci siamo fatti troppe proiezioni sul futuro…abbiamo cercato di realizzare al meglio delle nostre possibilità un lavoro ‘spontaneamente ispirato’. Speriamo di suonare dal vivo, dove la dimensione più consona a questo tipo di ‘format‘ può restituire al pubblico l’energia che abbiamo percepito nel concepirlo.

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