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Ravens Like Desks</br>Intervista a Stefano Carbonelli

Ravens Like Desks
Intervista a Stefano Carbonelli

20 dicembre 2017

Stefano Carbonelli è un giovane chitarrista romano, classe 1991, che ha fatto il suo esordio discografico con il CD dal titolo “Ravens Like Desks” [Auand, 2016] e che è già sotto contratto con la CAM Jazz per un secondo CD che sarà pubblicato il 2 febbraio 2018. Lo incontriamo per saperne di più sulla sua idea di musica e sul suo primo disco da leader.

di Luciano Vanni

Innanzitutto presentati ai nostri lettori. Raccontaci come e quando hai deciso di dedicare la tua vita alla musica, quali sono stati i tuoi primissimi ascolti e i tuoi primi riferimenti espressivi.
Tutto è partito dalla mia famiglia: mia madre è diplomata in pianoforte, mio padre suonava chitarra e sassofono e gli zii erano maestri di chitarra classica, mandolino e pianoforte. Dedicarsi alla musica è stato naturale: a dieci anni ho scelto la chitarra senza una riflessione precisa e poi ho iniziato a scrivere canzoni. M’interessava l’aspetto creativo. Dopo un paio di anni ho scoperto l’esistenza di una musica ‘strana’ che risultava ‘bella’ dopo ripetuti ascolti: sono passato così da Pino Daniele ad Antonio Carlos Jobim, e in seguito a Chet Baker, Dexter Gordon, Herbie Hancock e a tutti i grandi nomi del jazz americano: l’ascolto era una sfida, un processo di crescita che regalava ‘emozioni musicali’ mai provate altrimenti. Continuavo a non essere interessato al chitarrismo ma alla musica in se stessa e oggi cerco di suonare pezzi che finora non si credeva fosse possibile eseguire con questo strumento, di riprodurre fedelmente brani contrappuntistici come le invenzioni a due voci di Bach o di riadattare brani per pianoforte di Ravel o Debussy.

Arriviamo alla tua idea di musica. Cosa vuoi proporre al pubblico?
Voglio proporre qualcosa che abbia identità e dare un contributo all’evoluzione della musica. Cerco un’espressione che faccia pensare le persone: che le sorprenda e che riesca a cambiare il loro modo di percepire l’esistenza.

Cosa significa incidere un CD, oggi? Ha ancora senso? Che valore ha realizzare una nuova produzione discografica?
Innanzitutto significa diffondere e lasciare in eredità un’opera; per quanto oggi il CD sia meno richiesto dal mercato, è comunque il mezzo che si usa per rendere ufficiale un progetto musicale e per investire su una figura artistica.

Veniamo al tuo album “Ravens Like Desks”. Quando nasce l’idea di entrare in studio?
Dopo aver trovato i musicisti giusti, ovvero Riccardo [Gambatesa, ndr], Matteo [Bortone, ndr] e Daniele [Tittarelli, ndr], ho pensato che fossimo pronti per dare alla luce “Ravens Like Desks” e così siamo andati in studio nella fine del 2014.

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E come nasce il gruppo e la selezione del repertorio, interamente scritto da te?
Il repertorio è il frutto di anni di ricerca di forme originali, sia ritmiche che armoniche. E’ stato bello ritrovare poi elementi analoghi nella musica classica moderna e contemporanea (Stravinskij, Ravel, Ligeti), nei ritmi bulgari e nelle composizioni di alcuni jazzisti recenti. Ho avuto la conferma che quelle intuizioni potessero generare un’estetica e un linguaggio coerente. Ho avuto inoltre la fortuna di aver trovato musicisti che si sono messi totalmente a servizio del progetto. Non far prevalere il proprio modo di suonare significa capire il potenziale delle composizioni e dell’interazione con il gruppo, è una capacità di cui ha bisogno la musica. Daniele per esempio ha un’intelligenza eccezionale, oltre a un suono di sax alto meraviglioso come pochi: posso affidargli non solo i temi, ma anche le improvvisazioni in modo che esse sembrino far parte della stessa composizione! Ad esempio nella quinta traccia Stop Kickin’ That Dodo, inizia il solo con delle variazioni spostate sul tempo (in real time!) dell’ultima frase tematica. Il tutto non funzionerebbe senza l’interazione energica e sensibile con Matteo e Riccardo, che rende unico il suono della formazione.

Quanto è importante, per te, trovare un equilibro tra scrittura e improvvisazione? Come si muove, a riguardo, il tuo gruppo?
Ho sperimentato vari gradi di libertà espressiva: dal free jazz all’assoluta lettura della partitura, fino alle ultime composizioni, alle quali ho voluto dare un taglio neoclassico, per cui in ampie sezioni tutte le note sono scritte, persino quelle della batteria. Credo che il gruppo si muova bene a prescindere da quanta libertà gli venga concessa.

Veniamo al suono della band: emerge un timbro assolutamente personale, diciamo, banalizzando, d’oltreoceano e profondamente up-to-date. Quanto hai cercato, e voluto, questa tua/vostra identità sonora? E quanto è importante, per un gruppo, esprimerla così chiaramente?
Moltissimo per me; nella scelta dei musicisti ho dato un’alta priorità ai timbri di partenza, mi piace un contrabbasso di cui si percepiscano tutte le note nettamente, con il rango di ‘voce’ e non solo di rafforzo ritmico, un sax profondo, cassa e piatti con attacco definito, riverberi non troppo evidenti. Ho seguito per intero il mix e il master con mio fratello fonico Daniele perché volevo che uscisse questa identità sonora.

Avevi dei modelli di riferimento?
Per quanto riguarda il trio di chitarra mi piacevano le formazioni di Metheny con Pastorius+Moses e Holland+Haynes, all’epoca ascoltavo molto il quintetto di Dave Holland con Chris Potter, Billy Kilson… Dimensioni acustiche come più o meno quelle del disco. Per la resa delle riprese audio è stato fondamentale il lavoro di mix di mio fratello Daniele, da cui ho imparato cose importantissime per l’equilibrio in una band. La fonia è fondamentale nel delineamento del suono del progetto, al pari dei musicisti.

A proposito di timbro: ci racconti il tuo assetto strumentale, ovvero la scelta della chitarra e dell’effettistica?
Suono una Stratocaster American Standard a cui ho aggiunto tre switch per ottenere ogni percorso possibile tra i pick-up: sedici timbri diversi invece di cinque, da ‘paperino’ al super-humbucker a tre magneti. La chitarra è settata morbida e questo rende fattibili passaggi estremi a due voci in tutta l’estensione. Degli effetti prediligo il volume, un simulatore del pedale tonale del piano, delay e riverbero, overdrive e un indispensabile equalizzatore a dieci bande. L’ultimo effetto che ho provato è un rack di moduli analogici anni Settanta per il reattore Frascati Tokamak dell’ENEA (dove ho tenuto una conferenza su fisica e musica): grazie alla radice quadrata del segnale genera una pesante distorsione metal oppure fa da tremolo grazie alla moltiplicazione di due input (chitarra x onda quadra). In studio ho impostato personalmente le fasi stereo della chitarra per ottenere un suono esteso nello spazio. Mi hanno detto che in ‘Fuori da Casa Mia!’ sembra esserci un Rhodes! Ho aggiunto anche un lieve ring modulator nella prima traccia.

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Il quartetto, nonostante il suo solidissimo amalgama, espone un affascinante contrasto tra due livelli espressivi contrastanti: quello rappresentato dalla chitarra e dal contralto, che espone i temi [spesso all’unisono] e che offre l’intelaiatura armonica, e quello della ritmica, batteria e contrabbasso, che ne sostengono il drive. Come e quanto avete lavorato assieme per arrivare a una tale maturità? Cosa hai chiesto, se lo hai fatto, ai tuoi colleghi? Quale era il tuo riferimento espressivo, se ce ne fosse uno?
Abbiamo dovuto trovare il giusto equilibrio nell’accompagnamento tra contrappunto ritmico e sostegno in secondo piano. Per arrivare a un risultato efficiente è servito il confronto tra tutti e quattro, si chiedeva a ognuno di controllare le parti degli altri per non perdere di vista il quadro d’insieme, per essere appagati dalle note della band e non dalle proprie; come avviene nel trio di Brad Mehldau, nel quintetto di Miles Davis e Wayne Shorter. Un gruppo musicale che improvvisa è un team in cui i ruoli sono divisi ma tutti devono essere al corrente di quello che succede per agire al meglio, sviluppando così una meravigliosa capacità che include percezione, misura, analisi, creatività, maturità, decisione, direi qualità hardware e software, in tempo reale.

“Ravens Like Desks” è anche un manifesto del tuo modo di intendere la musica perché tutte le dieci composizioni portano la tua firma. Come lo descriveresti questo tuo vocabolario?
È un vocabolario di strutture: insiemi di note fino alle multi-tensioni ai confini dell’armonia funzionale. E’ anche un vocabolario di metriche temporali alternative. Perché si suonano tempi binari così spesso? Altre culture ci dimostrano che sia fattibile per tutti concepire durate suddivise in numeri primi più alti (cinque, sette…). “Ravens Like Desks” dall’alto non è molto originale: di solito si ha tema-solo-tema, ma all’interno di questa forma standard jazz si manifestano questi mattoni singolari.

Il quartetto si muove con grande energia ma al tempo stesso controllo; la tua musica espone una lunga sequenza di obbligati [e mi viene a mente la scrittura di Kurt Rosenwinkel] ma annuncia grande libertà di movimento, non trovi?
Abbiamo studiato e provato molto per metabolizzare i groove dei brani, per poterci liberare dagli obbligati scritti. Niente di diverso qualitativamente dal modo di variare un quattro quarti, solo che partivamo da suddivisioni più articolate, vedi Tempo Nuvoloso: un cinque quarti e mezzo.

Ascoltando il quartetto dal vivo, penso alla performance al “Cantiere” nella primavera del 2015: misurate con grande maturità le parti in assolo, dosandole con parsimonia come se fosse primario il desiderio narrativo della composizione. Confermi?
Sì, questo è il tipo di concezione a cui appartiene il disco. Da allora stiamo migrando verso la fusione tra assoli e parti scritte: un intervento improvvisato può avere funzioni differenti e non necessariamente costituire un capitolo concludente, specie se è all’interno di un racconto più grande. In tal caso spicca meno il singolo improvvisatore rispetto al compositore.

Quale brano senti più emotivamente vicino nel momento in cui vi esibite dal vivo?
Febbre a 17, ho un debole per i tempi composti in quintine. Sono così scorrevoli, più fluidi delle quartine, non fitti come le sestine. Su questa base galleggiante si sviluppa forse la struttura più varia dell’album, con una melodia carezzevole che si trasforma in una seconda parte ai limiti dell’hip-hop. L’ho composta un diciassette febbraio, durante il mio soggiorno londinese.

Nonostante sia un esordio discografico, cosa ha aggiunto questo cd alla tua carriera? Cosa è cambiato nel corso della tua vita artistica?
E’ stato l’inizio, il primo punto indelebile di una ricerca costante. Da allora il gruppo è in continua crescita, come si sentirà nel prossimo album “Morphé”, edito dalla CAM Jazz, in uscita il 2 febbraio 2018, di cui spero avremo presto modo di parlare.

Ad oggi, ci racconti la più grande soddisfazione vissuta grazie a questo tuo CD?
Sentire realizzata la mia scrittura, divertirmi a suonare con altri musicisti, come se fossimo tutti guidati da un’unica mente.