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“Hidden Rooms”: intervista a Marco Centasso per il suo disco di esordio

“Hidden Rooms”: intervista a Marco Centasso per il suo disco di esordio

3 febbraio 2023

La Parco della Musica Records pubblica il disco di esordio del contrabbassista Marco Centasso, intitolato “Hidden Rooms”. Al suo fianco troviamo Giovanni Mancuso (pianoforte), Alberto Collodel (clarinetto basso) e Raul Catalano (batteria). In questa lunga intervista ci racconta la genesi del suo lavoro.

a cura di Chiara Giordano

Come nasce il tuo primo disco, “Hidden Rooms”?
L’idea del progetto “Hidden Rooms” è nata sulla scia del primo anno di pandemia quando, forse proprio per evadere o per sfruttare al meglio quel momento di raccoglimento, ho avuto modo di dedicare molto tempo alla scrittura musicale. Nel 2021 mi sono guardato attorno e mi sono reso conto che avevo in mano abbastanza materiale per incidere un album, cosa che mi sono ripromesso di fare entro l’anno. Seppur diversi tra loro, infatti, i brani presentavano una coerenza di fondo ai miei occhi, come stanze della mia mente, finestre affacciate sulle suggestioni che avevano innescato la scrittura musicale.

Puoi dirci qualcosa sui colleghi musicisti con cui hai condiviso la session?
La scelta della composizione del gruppo non è stata contestuale. Si potrebbe dire che li avessi scelti prima ancora di aver deciso di intraprendere il progetto e di contattarli, come se avessi scritto i brani pensando a loro e ai loro rispettivi suoni. Parlo di Giovanni Mancuso (pianoforte), Alberto Collodel (clarinetto basso) e Raul Catalano (batteria), tutti musicisti con i quali collaboro da molti anni in svariati progetti che vanno dal jazz più tradizionale alla sperimentazione fino ad arrivare all’opera contemporanea. Con loro ho condiviso una grandissima fetta della mia esperienza musicale, e di vita, aspetto che ha contribuito a creare un’intesa forte, quasi magnetica, che ci consente di intendere la direzione che un brano o un’improvvisazione deve prendere senza bisogno di esplicitarlo in alcun modo: pura magia.

A quando risale la registrazione? Ci racconti dello studio discografico e del fonico?
Come ripromesso, siamo entrati in studio nel luglio 2021. La scelta dello studio di registrazione è caduta sul Cat Sound Studio di Mario Marcassa, a Badia Polesine, perché lì avevo già registrato un disco assieme al quintetto RAME e mi ero trovato molto bene con Mario, sempre professionale e attento alle esigenze di ogni musicista. Ho dei bellissimi ricordi legati alla fase di registrazione vera e propria, ero molto emozionato di incidere i brani. Sospinto da un equilibrio tra la tensione e l’entusiasmo, ho completato la fase di registrazione con una gran voglia di pubblicare e suonare l’album.

Avete deciso di pubblicare il vostro lavoro con la Parco della Musica Records.
Dopo la registrazione è cominciata la fase di ricerca di un’etichetta discografica in grado di rappresentare al meglio la musica che avevamo appena registrato. Proprio in quel periodo ero stato selezionato come contrabbassista della ONJGT, l’Orchestra Nazionale Jazz Giovani Talenti, diretta da Paolo Damiani nell’ambito della Fondazione Musica per Roma. Durante i mesi di lavoro assieme all’Orchestra ho avuto modo di conoscere la produzione di Parco della Musica Records. È durante quel periodo che Roberto, il produttore, conoscendo la mia musica attraverso i brani che ho scritto per l’Orchestra e avendo ascoltato la registrazione appena incisa, ha deciso di produrre “Hidden Rooms”, che è stato poi pubblicato il 22 ottobre del 2022 da Parco della Musica Records. La fase di missaggio e masterizzazione è stata fatta negli studi di Parco della Musica a Roma con grande professionalità. Devo dire che ho avuto la fortuna di essere accompagnato in questo percorso da persone con cui ho da subito sviluppato una forte intesa e questo è valso anche per i tecnici con i quali ho curato la scelta dei suoni e la direzione da dare all’album, ma anche con tutto il resto dello staff della produzione, dall’ufficio stampa ai fotografi.

Marco Centasso © Furio Ganz

Ci racconti del tuo vissuto artistico e umano? Quali esperienze vissute hanno determinato il cd da un punto di vista espressivo, umano e stilistico? Quali motivazioni ti hanno portato a registrare in studio, fissando per sempre questa tua musica?
Il mondo dell’arte l’ho scoperto relativamente tardi, chissà se esiste un tardi o un presto per queste cose. Ci sono arrivato alla fine delle scuole medie quando ho iniziato a suonare il basso elettrico da autodidatta. Il punto di svolta ritengo sia stato però alle superiori durante il percorso di studi presso l’Istituto d’Arte di Venezia. Lì ho avuto modo di confrontarmi con insegnanti e studenti con una differente visione del mondo, forse in un certo senso più simile alla mia, ma all’epoca non l’avevo ancora intuito. All’Istituto d’Arte per cinque anni ho seguito i corsi nella sezione che allora si chiamava Arti della Stampa. Nonostante il campo artistico fosse ben differente dalla musica è proprio attraverso lo studio sistematico di una disciplina artistica che ho deciso di cominciare ad approfondire gli studi anche in campo musicale partendo con il prendere le prime lezioni private di basso elettrico. Il mio primo insegnante fu Edu Hebling un musicista e didatta incredibile. Attraverso il suo incontro è scattato qualcosa, avevo capito che nella vita se c’era una cosa che dovevo fare era fare musica, era all’incirca il 2012 e fu una vera e propria epifania che mi spinse a continuare gli studi iscrivendomi poi al conservatorio. Ad ogni modo tutte queste esperienze extra-musicali, così come la fotografia e la stampa in camera oscurahanno influenzato e continuano ad influenzare il mio modo di fare e concepire la musica. Non sono in grado di spiegare a parole come, e non sono sicuro nemmeno di volerlo sapere… Provo a farti qualche esempio perché tendenzialmente ogni brano contenuto nell’album intreccia un dialogo musicale con i diversi temi che hanno ispirato la scrittura dello stesso. Contenuto Latente, brano di apertura del disco, riflette i parallelismi tra la psicanalisi dell’esperienza onirica e lo sviluppo fotografico in camera oscura, giocando tra il concetto Freudiano di contenuto latente e l’immagine latente della pellicola fotografica, visibile ad occhio nudo soltanto eseguito il processo chimico di sviluppo. Penso a Octopus’ Ecstasy, nata durante l’esplorazione di intelligenze non umane (eppur così simili) tra cefalopodi nella lettura di “Altre Menti” di Godfrey-Smith e di un esperimento molto chiacchierato pubblicato su “Current Biology”. Miss Tremors indaga invece il morbo di Parkinson, malattia di cui mia nonna ha sofferto per molti anni, sulla scia dei racconti di uno dei miei scrittori preferiti, Oliver Sacks, e di analoghe patologie e il loro rapporto con le cure farmacologiche e i relativi “risvegli”. Metamauco invece si mette sulle tracce del mistero che avvolge l’antico nome di Malamocco, un’isola della laguna Venezia, raccontando una leggenda del passato e una storia tristemente attuale della città nell’antropocene. Raccontare di tutte queste suggestioni fissandole per sempre presumo sia un modo per mettere a nudo le mie “stanze nascoste”, condividere con gli altri le esperienze che nel corso degli anni hanno lasciato un segno indelebile nel mio modo di creare musica. Questa era la risposta razionale. Se devo dare una risposta irrazionale penso che la motivazione per il quale abbia scelto di incidere questo album sia esorcizzare alcune esperienze vissute. Come una sorta di formula magica, o meglio un rituale scaramantico.

Puoi farci una breve descrizione della tua musica da un punto di vista stilistico-tecnico-compositivo per evidenziarne le caratteristiche specifiche a livello espressivo?
Questa è una domanda interessante. Cercherò di andare al punto partendo dal mio processo creativo di scrittura. Tendenzialmente il mio modo di scrivere si basa su una serie di fasi che hanno come punto di partenza dei piccoli e brevi schizzi, appunti ritmici e/o melodici. Queste piccole idee abbozzate di solito emergono quando passeggio, e vi assicuro che a Venezia si passeggia parecchio, oppure quando improvviso al pianoforte o al contrabbasso. Dopo aver raccolto una quantità sufficiente di questi appunti – registrati o annotati – passo alla fase di sviluppo che per il 90% dei casi avviene stando seduto al pianoforte. Mentre la prima fase la considero quasi inconscia, naturale, senza nessun tipo di limite la fase di sviluppo la trasformo in qualcosa di più metodico, cerco di capire come incastrare i pezzi, come articolarli, che direzione dare al brano e soprattutto mi domando: cosa voglio dire o raccontare attraverso questo brano? Pormi questa domanda mi aiuta molto per dare una direzione musicale chiara alla composizione e la risposta è spesso, come ho spiegato prima, un dialogo con le notizie, le letture e le riflessioni che mi accompagnano in quei momenti. Dal punto di vista strettamente musicale, di grande ispirazione è stato, ed è tuttora, il movimento minimalista, in particolare modo la figura di Steve Reich. Anche quello che ora è considerato post-minimalismo rientra nella mia cerchia stretta di ascolti, ad esempio la musica di Nik Bartsch, altro musicista che ammiro e seguo con grande entusiasmo. Perciò, cerco sempre di rendere il ritmo protagonista, di privilegiare gli incastri, le illusioni ritmiche date dall’utilizzo di poliritmie. Nonostante il mio percorso di studi sia stato principalmente incentrato sulla musica jazz e la sua tradizione ho sempre pescato da tantissimi artisti differenti tra loro, da John Cage ai Tool, passando per Gary Peacock, John Zorn, Thom Yorke, Giacinto Scelsi e Dave Holland. Non mi sono mai accontentato di fare solo jazz, ho sempre cercato di immergermi nella musica nel significato più ampio del termine, che sia essa jazz, elettronica, contemporanea o hip-hop. Effettivamente non so se questo poi si rifletta nella musica che ho scritto, non penso di dover essere io a dirlo, ma penso che in un modo o nell’altro abbia altamente influenzato tutto il processo. Dal punto di vista strettamente tecnico per “Hidden Rooms” ho cercato di mantenere un giusto equilibrio tra improvvisazione e scrittura, e quest’ultima devo ammettere che è stata una vera e propria sfida. Uno degli insegnamenti più preziosi che custodisco, e cerco di farne sempre tesoro nel momento in cui compongo, è dato da Duke Ellington. Ellington quando scriveva e arrangiava la sua musica non lo faceva pensando allo strumento ma specificatamente al suono che quel determinato solista aveva. La stessa cosa ho cercato di tradurla con il quartetto in “Hidden Rooms”. Quando scrivo per clarinetto basso penso quasi naturalmente al suono di Alberto, non penso al suono di un qualunque clarinetto basso. Quando scrivo per pianoforte penso a come Giovanni elaborerà ai tasti e quando penso alla batteria so di affidarmi al ritmo di Raul. In questo modo si fanno emergere tutte le potenzialità e le singole caratteristiche che contraddistinguono il musicista che andrà ad eseguire la musica. Nonostante la matrice jazz tutti noi del quartetto alle spalle abbiamo una consolidata esperienza nel campo della musica contemporanea e dell’improvvisazione. Questo è uno dei motivi per cui ho cercato di lasciare molto spazio anche alla libera improvvisazione come avviene nei brani Room One, Room Two e in gran parte su Oscura Era.

In alto, da sinistra a destra: Giovanni Mancuso (pianoforte), Raul Catalano (batteria), Marco Centasso (contrabbasso). In basso, al centro: Alberto Collodel (clarinetto basso) © Furio Ganz

A che cosa si deve la scelta del titolo dell’album?
Il motivo per cui ho scelto di dare il titolo “Hidden Rooms” all’album nasce dall’immagine che ho voluto dare ad ogni singolo brano, ovvero l’immagine di una stanza. Il concept delle stanze non nasce casualmente ma prende spunto da uno dei miei sogni più ricorrenti, rappresentato da grandi stanze completamente vuote, il più delle volte stanze simili a delle remote soffitte. “Hidden Rooms” prende vita così, come rappresentazione di un viaggio onirico che l’individuo compie durante l’immersione nel “luogo sogno”, attraversando soffitte interiori, inaccessibili nella veglia ma raggiungibili attraverso il processo onirico e attraverso l’azione musicale.

Cosa ricordi con più piacere di questa registrazione? Ci racconti un aneddoto legato a questo album che non scorderai e che porterai sempre con te?
Uno dei ricordi più intensi che ho riguardo alla registrazione è senza dubbio il periodo delle prove prima di entrare in studio. Come ho spiegato prima, le primissime sessioni le abbiamo fatte in un periodo in cui erano ancora in vigore le restrizioni legate al lockdown per la pandemia da COVID19.  All’epoca gli amici di Argo 16, un’associazione culturale di Venezia, ci hanno dato la possibilità di provare nel loro incredibile spazio. Fatti tutti i vari permessi per muoversi in zona rossa abbiamo cominciato le prove ed è stato letteralmente come “riprendere fiato” dopo un lungo periodo di isolamento. Ritrovarsi a suonare assieme nella stessa stanza è stata un’esperienza rigenerante, una vera e propria rinascita. La voglia di suonare era tantissima così abbiamo cercato di sfruttare al meglio il tempo a disposizione per sperimentare, provare ed aggiustare le composizioni che poi sarebbero successivamente finite all’interno di “Hidden Rooms”.

Se tu dovessi descrivere la tua musica, come la definiresti? Come cambia la tua musica dal vivo?
Non la definirei. Scherzo … (in parte!) però ritengo sia una domanda assai complessa per chiunque, non solo i musicisti che parlano in prima persona, ma anche gli scrittori di musica. C’è un motivo se certe cose scegliamo di suonarle e non le diciamo altrimenti. Ad ogni modo se dovessi trovare un modo per descrivere la mia musica direi che è una chiave. Per aprire che cosa non lo so nemmeno io. Dirlo spetta a chi avrà occasione di ascoltare l’album o di ascoltarci dal vivo.
A questo proposito mi collego al secondo punto di questa domanda rispetto alla musica dal vivo. Nei concerti l’energia ovviamente è molto diversa, è tutto più elettrico per via dell’adrenalina e del rapporto con il pubblico. Entrano in gioco altre dinamiche, ben differenti dal modo in cui si suona in studio di registrazione. In primis cerchiamo di lasciare molto più spazio alla libera improvvisazione. Per questo, le strutture dei brani spesso sono modificate, allungate o accorciate a seconda del momento o del luogo in cui suoniamo. L’ascolto si fa più fine, la fisicità e la complicità aiutano ad eliminare le coordinate spaziali e temporali, mettendo da parte passato e futuro per far spazio al tempo presente. Oserei dire che c’è qualcosa di più animalesco e arcaico nella maniera in cui viviamo l’esperienza musicale. La prima esperienza dal vivo di “Hidden Rooms” è stata lo scorso 22 gennaio al Torrione Jazz Club di Ferrara. Era la prima volta che suonavamo l’album dal vivo ed è stata un’esperienza molto positiva. Il luogo era molto suggestivo e la sala consentiva un raccoglimento e un rapporto con il pubblico molto intimo.

Marco Centasso Quartet © Furio Ganz

Cosa apprezzi maggiormente di questa tua produzione discografica? Cosa aggiunge questo cd al tuo percorso artistico?
Questo album aggiunge un tassello importante al mio percorso artistico e il motivo principale è che segna un nuovo punto di partenza. Il giorno dopo la pubblicazione di “Hidden Rooms” ho ripreso a scrivere frammenti di musica e a pensare a quello che potrebbe diventare un progetto futuro, chissà un prossimo album magari. L’esperienza della prima produzione discografica personale è qualcosa di incredibile. Non sempre facile ma comunque un percorso utile a comprendere ciò che è davvero fondamentale musicalmente parlando, aiuta a focalizzarsi. Ad ogni modo l’esperienza più gratificante di tutto ciò è stata lavorare al disco assieme ad Alberto, Giovanni e Raul. Senza di loro “Hidden Rooms” non sarebbe quello che è. La musica offre una possibilità unica di connessione con l’altro. Oltre ad essere colleghi e musicisti eccellenti, sono persone con cui condivido molto in generale e la loro amicizia è per me fonte di grande ispirazione grazie al continuo confronto che intratteniamo non solo in ambito musicale, ma anche in altri ambiti di interesse.

Come definiresti in tre parole questa tua produzione discografica?
Se dovessi definire la mia produzione discografica in tre parole, altra domanda complessa, la definirei come introspettiva, enigmatica e ipnotica.

 

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