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Eternal Love
Intervista a Roberto Ottaviano

Eternal Love<br/> Intervista a Roberto Ottaviano

22 marzo 2019

Abbiamo intervistato il sassofonista Roberto Ottaviano per parlare del suo ultimo lavoro discografico “Eternal Love”, edito dall’etichetta Dodicilune e prodotto grazie al sostegno di Puglia Sounds Record 2018, un album intenso, profondo, poetico, che rappresenta un viaggio introspettivo alla scoperta della bellezza, di valori ormai persi e del concetto di “amore eterno” e totale.

di Arianna Guerin

Ci racconti a cosa si riferisce l”amore eterno” celebrato nel titolo di questo tuo ultimo album così intimo e spirituale?
Ci sono cose che ritornano sempre, cose che non “appartengono solo a te”. Sono cose che credevi di aver perso con il tempo, con le vicissitudini della vita, con l’acqua che passa sotto i ponti, e invece con stupore un bel giorno ti ritrovi faccia a faccia con quelle cose che evidentemente si erano profondamente radicate da qualche parte dentro di te. Sono cose magari apparentemente piccole, come un profumo, una frase, un’immagine, un suono. Tuttavia nel gioco di rimandi che la nostra coscienza, la nostra esperienza e la nostra emotività mettono in atto in età matura, ti rendi conto che il valore di questi “oggetti ritrovati” risiede non in una pagina personale, bensì in una testimonianza universale. Prova ne è il fatto che, soprattutto quando cerco di esprimerle in musica, attraverso una “lectio restituta” senza limiti di spazio e di tempo, cioè quella dei musicisti a cui sono legato di più, chi ascolta ritrova parte del “suo” sentire. Si fa fatica a descriverlo, ma non a sentirlo. L’Eternal Love lo cogli in un madrigale di William Byrd o John Dowland come in una Cantiga Portoghese o nel suono di Coltrane, come in quello di John Surman che ho rivisto sere fa.

 

Quali valori e principi, che permettano al genere umano di riscattarsi, vuole trasmettere?
La mia resta solo una semplice attitudine alla ricerca e alla condivisione di curiosità e bellezza. In un momento in cui tutto ci parla di velocità, muscolo, tecnologia e riproducibilità, vorrei esercitare (come cita una canzone di Robert Wyatt) l’arte del salmone, nuotare al contrario della corrente. Lentezza, poesia, artigianato e creatività. Ogni giorno che passa ci rendiamo conto (oppure no) di come viene facile odiare e incitare conflittualità e come sia invece difficile amare. E quando uso questa parola sto bene attento a non cedere a una sorta di esercizio melenso. La durezza, la contrapposizione, la denuncia sono necessari strumenti di un mondo dialettico e non abbandonato al semplice istinto, per cui “Amore” significa aver cura, rispetto, onestà e consapevolezza di non essere soli e quale ricchezza questo significhi.

Come hai scelto i diversi brani presenti nell’album, reinterpretazioni di celebri pezzi della storia del jazz, e come sono nate le tue composizioni originali?
Nella mia vita di musicista ho avuto la fortuna di incontrare artisti di ogni parte del mondo, dalle Americhe del Sud all’Asia, fino all’Africa. Proprio in quest’ultimo caso, apprendere da Francis Bebey, Lamine Kontè, Baba Sissoko, Gabin Dabirè, Salif Keïta, aver lavorato con alcuni di loro nella propria terra, e poi aver trovato una dimensione unificante, tra la mia esperienza nel jazz e quella della loro musica tradizionale, grazie all’incontro con il batterista sudafricano Louis Moholo Moholo, ed al contrabbassista Harry Miller, mi ha illuminato la strada sul concetto esteso di “Amore” in musica, e l’Africa è la via. Il brano di apertura Uhuru che vuol dire «Libertà», è un inno di cui anni fa ascoltai la versione per coro di infanti. La forza e la maestà espresse da questo coro, insieme a una traccia di sofferenza e dignità, hanno aperto definitivamente il mio cuore. Veniamo da lontano e il cammino è difficile, frustrante, pieno di incognite, senza risposte certe. L’unica certezza, ripeto, è data dalla curiosità e dalla bellezza. Abdullah Ibrahim, Coltrane, Cherry, Haden, Redman, ma anche il compianto Elton Dean (che insieme a pochi altri, negli anni Sessanta ha accolto nella comunità dei musicisti inglesi, gli artisti africani sfuggiti all’Apartheid), sono stati una scelta estremamente immediata e naturale per la suggestione del loro pensiero sonoro. Nel frattempo altri ve ne sono aggiunti, e l’inserimento della mia scrittura personale ha cercato di integrare un ulteriore punto di riflessione, come in Questionable 2 in cui si mette a contrasto il contesto più urbano (nel groove ritmico e nella presenza del suono elettrico del Fender Rodhes) con quello più lirico di brani tipo Until the Rain Comes di Don Cherry, oppure il mio Eternal Love che è una specie di canto errante dedicato agli spiriti che non ci abbandonano mai.

Parlaci della tua idea di jazz come “musica totale”.
Può una musica con una genesi e un percorso sociale e culturale, oltreché con degli elementi “linguistici” così peculiari essere anche considerata uno spazio aperto? Al di là dei manifesti estetici come quello di Giorgio Gaslini, che per primo sviluppò in modo organico questo argomento in Italia nella seconda metà degli anni Sessanta, io credo che nulla come il jazz possa essere considerato una “musica totale”. Lo spirito del jazz è nell’incontro. Potremmo spolverare impegnativi studi musicologici per ricavare la multietnicità, che è la genesi di questo linguaggio musicale, dall’Africa, attraverso la penetrazione araba nei paesi del Mediterraneo, e poi mescolata al mondo ispanico, nuovamente in viaggio in direzione delle Americhe centrali, a risalire verso il nord, fino a quando poi accoglie, a partire dal XX secolo, altre etnie di tutto il mondo. Più semplicemente diremo che il suo Dna è fatto per integrare e stimolare, attraverso una concezione peculiare del tempo e dello spazio, persone con storie diverse a dialogare e costruire insieme percorsi e progetti di convivenza unici e senza bisogno di formalità. L’unico patto è quello di una fiducia reciproca e il rispetto nell’esprimersi secondo un idioma che mantenga i tratti salienti di questa filosofia e pratica musicale.

Come hai scelto la tua nuova formazione, che ha affrontato con grande maestria il variegato repertorio del disco?
Fatta eccezione per Marco Colonna, con gli altri abbiamo avuto diverse occasioni negli anni in cui suonare e registrare insieme. Con Giovanni Maier abbiamo ormai un sodalizio pluridecennale in formazioni da me guidate, come anche in ambiti in cui eravamo entrambi ospiti, stessa cosa con Zeno De Rossi, ma da meno tempo. La combinazione dei due è per me fonte di stimolo e garanzia. Sono due artisti a tutto tondo con in testa l’idea della musica, e non solo sul circoscritto ruolo che la sezione ritmica sembra tradizionalmente imporre. La collaborazione con Alexander Hawkins è partita con il mio disco tributo a Steve Lacy “Forgotten Matches” del 2014. Alex è uno tra i pianisti più completi e interessanti del panorama europeo attualmente in circolazione. Avevo sentito Colonna in qualche streaming in rete e avevo incrociato il suo pensiero in generale. Mi ha molto incuriosito e ho provato ad invitarlo per un piccolo progetto a cavallo tra musica antica e improvvisazione. Intanto la fusione dei nostri strumenti ha funzionato benissimo sin da subito, così come il verbo delle frasi, complementare e affine, e poi c’è tra di noi grande umanità. Mettere insieme un “gruppo” che riesca a gestire forma ed emozione, che riesca a sviluppare entusiasmo e curiosità nello sperimentare e lo faccia come pratica non solo professionale, ma anche e soprattutto perché ritrova se stesso in questa dimensione, non è una cosa semplice. Avevo perfino un po’ di pudore nel proporre dei brani di Coltrane, visto l’alto tasso di capacità creativa e la volontà di guardare oltre l’idea del “repertorio”. Invece sono felice per il fatto che tutti abbiano colto all’istante lo spirito che mi ha mosso verso questa direzione e ognuno ha suonato se stesso in queste pagine meravigliose scritte da persone che amiamo.

E se dovessi descrivere l’album con tre aggettivi?
È un lavoro di pace, nel senso che intende riappacificare le mie tensioni intellettuali con quelle puramente emotive. È un lavoro di forza, perché intende sostenere la verità che è insita nella bellezza di molte cose prodotte dal genere umano, solo che per farle emergere bisogna far ricorso a tutta l’intensità e la determinazione di cui disponiamo. È un lavoro di poesia, che parla di cose vicine e lontane allo stesso tempo, di cose che dobbiamo saper cogliere anche se spesso abbiamo gli occhi e le orecchie bendate, di cose che spesso ci vengono sottratte e sostituite con succedanei che non reggono al tempo. Pace, forza e poesia. Eternal Love.

© Jazzit 2019