21 agosto 2023
Intervistiamo il pianista milanese Antonio Bonazzo, leader dell’AB Quartet, il quale ci racconta “Do Ut Des”, l’ultimo lavoro discografico del gruppo, pubblicato dall’etichetta discografica Red & Blue.
a cura di Andrea Parente
Buongiorno Antonio e benvenuto su Jazzit. Classe 1969, sei diplomato in pianoforte e composizione e hai svolto attività concertistica sia in ambito classico che jazzistico. Ti sei perfezionato in pianoforte con Walter Krafft presso il Münchener MusikSeminar a Monaco di Baviera e hai studiato pianoforte jazz con Rossano Sportiello alla Scuola Civica di Milano. Ci racconti come ti sei avvicinato al pianoforte? Perché l’hai scelto?
Per caso. A nove anni mi avevano proposto di fare qualche lezione di pianoforte. Ci ho provato e, dopo un po’, ho notato che mi divertivo, studiavo e andavo avanti. Da lì, non ho più smesso. A quell’età è tutto molto relativo: se ti piace la musica, la persegui a seconda dello strumento che ti danno; nel mio caso, devo dire che hanno scelto bene fin dall’inizio, dato che non ho mai cambiato strumento… [ride – ndr]
Raccontaci del tuo percorso musicale. Come si è evoluto nel tempo? Come ti sei approcciato al jazz?
Ho cominciato i primi studi con la musica classica, fino al diploma. Poi, ho seguito dei corsi di perfezionamento a Monaco di Baviera per alcuni anni con il pianista rumeno Walter Krafft, il quale mi ha insegnato il professionismo. Da lì, ho iniziato a suonare regolarmente in concerto per diversi anni, e nel frattempo mi sono diplomato in composizione. Poi, ho deciso di seguire strade un po’ diverse: ho iniziato ad abbandonare il concertismo classico per provare gli spazi più liberi che offriva il panorama jazzistico. Da qui si capisce, quindi, che il mio approccio al jazz è stato da musicista classico, ovvero di colui che impara una lingua nuova, quella jazzistica: un linguaggio che mi ha sempre interessato e che ho da sempre voluto approfondire, sia per la questione dell’improvvisazione, che per la maggiore libertà di movimento, che la musica classica non offre, essendo un genere che presuppone un modo di suonare completamente diverso da quello caratteristico del jazz. Inoltre, per quanto riguarda l’aspetto compositivo, la musica contemporanea mi è sempre stata stretta, e mi interessava davvero poco; nell’ambito jazzistico, appunto, ho trovato quella “libertà artistica” che mi permetteva sia di suonare che di pensare alla musica in sé. Considerando questa mia esigenza di “libertà”, ho iniziato subito a interessarmi al “free jazz”, in particolar modo al Modern Jazz Quartet, a John Coltrane, a Cecil Taylor, a Keith Jarrett. Quest’ultimo mi è sempre piaciuto, soprattutto nella sua versione da solista, e ha influenzato molto il mio modo di approcciarmi al jazz.
Nel 2009 hai fondato l’“AB Quartet”, un quartetto jazz attivo a livello internazionale, che propone un repertorio originale tra jazz e musica classica. Raccontaci un po’ del progetto, considerando che ha visto l’avvicendarsi di diverse formazioni fino al 2015, anno in cui ha trovato la giusta quadratura.
Nel 2009 stavo seguendo un master in musica elettronica e lì ho conosciuto alcune persone con cui ho iniziato a lavorare, intraprendendo una serie di “esperimenti” che sono poi confluiti nel disco “Outsiding”, pubblicato nel 2017. È chiaro che, all’inizio, neanche io sapevo esattamente dove volessi arrivare finché, dopo tutta una serie di tentativi, nel 2015 ho cominciato a lavorare con il clarinettista e compositore pugliese Francesco Chiapperini, e tutto ha iniziato a stabilizzarsi. Di conseguenza, abbiamo incominciato a lavorare a quello che poi sarebbe diventato il primo disco – “Outsiding” – e da quel momento in poi non ho più avuto l’esigenza di cambiare o di cercare altro, con l’avvicendarsi sia di un consolidamento della formazione, che di una cristallizzazione dello stile. Siamo partiti con “Outsiding”, poi abbiamo pubblicato “I Bemolli Sono Blu” nel 2020, fino ad arrivare al 2022, con l’uscita di “Do Ut Des”.
La formazione attuale è composta, quindi, da te al pianoforte, Francesco Chiapperini al clarinetto, Cristiano Da Ros al contrabbasso e Fabrizio Carriero alla batteria. Considerando che non è mai facile trovare musicisti che rispecchino appieno la propria idea di musica, tu come ci sei riuscito?
Tante prove e tanti tentativi. Sicuramente ho messo a fuoco quello che mi interessava un po’ alla volta, dato che non è stato facile neanche per me capire dove volessi arrivare: quello che facevo nel 2009 poteva essere un qualcosa di interessante alle orecchie di un ascoltatore, ma era comunque il frutto di tante idee, tante prove, tanti tentativi e tanti esperimenti; insomma, un qualcosa di non proprio definito al cento per cento. Anche le persone con cui lavori ti condizionano nel percorso che fai: io credo molto nell’apporto personale di ogni musicista con cui collaboro, dato che non si tratta di avere a che fare con semplici esecutori, ma con persone che prendono effettivamente parte a un progetto, sia dal punto di vista umano che musicale. E non mi riferisco solo a Cristiano, ovvero l’autore di alcuni brani del disco; anche l’apporto degli altri musicisti risulta essere assolutamente decisivo per tutto il progetto, ed è per questo motivo che cerco di comporre delle parti che siano il meno “scritte” possibili, lasciando così una maggiore libertà a tutti i componenti del gruppo, ovviamente sapendo bene come lavorano e cosa mi posso aspettare da loro. Motivo per cui ho avuto bisogno di conoscerli a fondo, trovando in loro l’affinità giusta per stabilizzare il progetto stesso e, di conseguenza, il sound che ne esce fuori. In poche parole, lascio carta bianca e loro vanno nella direzione che piace a me.
Focus sul presente. Cosa ci racconti di “Do Ut Des”, l’ultimo lavoro discografico dell’AB Quartet, pubblicato dall’etichetta discografica Red & Blue. Come hai sviluppato l’iter narrativo del disco?
Il disco è nato dall’esigenza di realizzare qualcosa che, in qualche modo, fosse derivato e collegato alla musica antica. Se non vogliamo “scomodare” la musica greca, si può tranquillamente affermare che la musica “antica” parta almeno dal 1200. Ad esempio, uno dei brani del disco si chiama Beata Viscera, che è il titolo di un canto di Magister Perotinus del 1200… stiamo parlando di un’epoca lontanissima! In “Do Ut Des” non ho fatto altro che prendere come riferimento la musica dal Seicento in giù, assimilando modi di fare, stili compositivi e intere melodie, ad esempio, da messe che provenivano dal gregoriano: Ut Queant Laxis, brano anch’esso presente nel disco, è il canto di San Giovanni da cui sono derivati i nomi delle note. Trovo questo periodo della storia musicale molto stimolante, dato che è caratterizzata da un repertorio vastissimo, che in pochi conoscono. Difatti sono andato alla ricerca di cose che mi dessero spunti interessanti, per poi lavorarci sopra. Il tema di Dies Irae, altro brano presente nel disco, è stato utilizzato, ad esempio, da tantissimi artisti, tra cui Mozart e Verdi. Alcuni pezzi, quindi, derivano da composizioni gregoriane più o meno famose: Lux Originis, ad esempio, contiene dei frammenti di temi della Missa Lux Et Origo. Praticamente ho preso questi componimenti e li ho utilizzati come si faceva nel jazz degli albori: d’altronde, nessuno si è mai fatto dei problemi a prendere uno standard dei primi del Novecento. Se c’è questa libertà nelle canzoni, perché non lo possiamo fare con dei temi antichissimi? Questo produce, ovviamente, una sonorità un po’ strana, un po’ particolare, ed è proprio quello che è successo nel disco. Ci sono anche però alcuni pezzi che non hanno nulla a che vedere con la musica “antica”: ad esempio, nel brano che dà il nome al disco – Do Ut Des – non c’è nessun tema gregoriano. Quello che è stato preso come fonte d’ispirazione, riguarda invece il modo di comporre, ovvero l’uso di tre note: il tema diventa “Do, Do, Reb”, e questo forma, plasma e ispira tutto il pezzo.
Da un primo ascolto del disco ho avuto la netta sensazione che l’identità sonora dell’AB Quartet provenisse non solo da una maturità progettuale, ma anche da “un incontro tra esperienze musicali diverse”. Quali sono le diversità che rendono così unico il sound del quartetto?
Della mia esperienza “ibrida” ne abbiamo abbondantemente parlato in precedenza; per quanto riguarda Francesco Chiapperini, anche lui ha studiato inizialmente musica classica e si è avvicinato poi al “free jazz”, ed è molto più “free” di me; Cristiano Da Ros, invece, è il più jazz di tutti, dato che ha studiato al Berklee College of Music; Fabrizio Carriero infine viene da stili musicali diversi dal jazz, quali il rock e l’elettronica. Tutte queste esperienze musicali, quindi, creano una commistione di stili che, alla fine, caratterizzano il nostro suono. Ci tengo a ribadire che mi piace dare spazio a tutte queste influenze differenti, onde evitare di riassumere il tutto in un’unica direzione prestabilita.
Il disco è composto da sette brani originali, tutti scritti da te, eccezion fatta per Lente Sed Sine Misericordia e Ut Queant Laxis, composti da Cristiano Da Ros. C’è un brano del disco a cui sei particolarmente affezionato?
Lux Originis, il primo brano del disco: è proprio il classico pezzo a fuoco, con un tempo veloce e un ritmo incalzante; io compongo tutti i pezzi così, mentre i brani più lenti sono di Cristiano… andiamo benissimo in questo modo! [ride – ndr]. Devo ammettere che con i pezzi lenti faccio davvero fatica…
È da poco uscito il videoclip di Do Ut Des, il brano che dà il nome al disco. Mi ha molto colpito il perfetto connubio che c’è tra le immagini e la musica, soprattutto nei colori scelti. Questo videoclip è stato preceduto da quello di Lux Originis, in cui c’è un’interessante contrapposizione tra uno stile visivo “moderno” e uno stile tradizionale “retrò”. Ce li illustri nello specifico?
Per quanto riguarda il primo videoclip uscito, ovvero quello di Lux Originis, abbiamo voluto realizzare una cosa un po’ più classica: ci siamo noi che suoniamo dall’inizio alla fine, con una contrapposizione tra le parti con tutte luci laser a colori e quelle invece retrò, con tutto l’ambiente stile anni Cinquanta, caratterizzato da una cromia “black & white”; insomma, una concezione audio-visiva molto semplice. Per quanto riguarda invece il videoclip di Do Ut Des, è stato completamente ideato e realizzato da Anita Santimone, un’art director napoletana, di cui ho apprezzato molto sia lo stile, che il modo di pensare ai video: ho visto dei suoi lavori, l’ho contattata e da lì è nata la nostra collaborazione. Il bello è che non ho dovuto dirle nulla, e ha fatto davvero un gran lavoro! È un video che ha un cuore, una sua poetica. È da un po’ che cercavo una persona con cui collaborare e che, però, avesse un suo progetto artistico, non qualcuno a cui si debba dire come realizzare il video. Penso proprio che mi rivolgerò di nuovo a lei per il prossimo videoclip.
Uno sguardo al futuro. Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Stavo pensando, per l’immediato futuro, di realizzare una specie di “The Best Of” dell’AB Quartet: il primo disco è molto lontano, sia temporalmente che musicalmente, e ci sono diversi pezzi che dovrei rimaneggiare; siccome al suo interno c’è un brano che dura tredici minuti ed è molto difficile da suonare, ma presenta delle idee musicali che non sono male, stavo pensando di recuperarlo in qualche modo e di renderlo più “light”, magari mettendolo insieme a un paio di pezzi nuovi a cui sto pensando adesso e a qualche altro brano ripreso dai dischi precedenti. Nel frattempo, infine, vorrei lavorare a un altro progetto, che però è ancora in altissimo mare, in cui mi piacerebbe realizzare una collaborazione con una voce. Considerando che ho appena avuto un figlio, il già poco tempo che avevo a disposizione è diventato quasi nullo… ed è per tale motivo che ho in mente tutti questi tipi di progetti. Speriamo bene…
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