14 febbraio 2017
Dalla Lombardia alla Puglia, passando da Roma, Napoli e Matera, per poi rientrare attraverso il Veneto, ultima tappa del tour italiano del Daniel Karlsson Trio, “on the road” nel Belpaese – dopo Germania e Austria – per far conoscere al pubblico il nuovo lavoro discografico, “Ding Dong” (Brus & Knaster). Un disco sicuramente diverso – più introspettivo, corale, nel quale è maggiormente riconoscibile il pianismo di Karlsson e la consapevolezza della sua autorevolezza artistica – rispetto al fortunatissimo e pluripremiato “Fusion For Fish” uscito due anni fa.
In occasione del concerto del 9 febbraio scorso, andato in scena all’interno della rassegna “Aqva Mood – La notte, le note, il vino” presso il ristorante Aqva di Foggia – trasformato in un piccolo jazz club grazie all’apporto del Moody Jazz Cafè – abbiamo intervistato il trio protagonista della serata. Oltre al pianista Daniel Karlsson, hanno preso parte alla conversazione anche il contrabbassista Christian Spering e il batterista Fredrik Rundqvist (si ringrazia Antonio Belgioioso per la collaborazione). Le foto sono di Samuele Romano.
Di Alessandro Galano
Dopo l’uscita di “Fusion For Fish”, la carriera del Daniel Karlsson Trio ha preso una piega diversa: tanti premi, tanti concerti e tanta considerazione nei vostri riguardi. Cosa ha aggiunto al jazz contemporaneo quell’album per ricevere tutta quell’attenzione, tanto da trainare anche l’uscita di quest’ultimo lavoro, “Ding Dong”?
Difficile da dire. Forse l’intuizione migliore è stata quella di produrlo come se fosse un album pop. Abbiamo osato molto, usando le tastiere e altri strumenti che di solito non sono considerati congrui con lo stile jazzistico e abbiamo creato così una nuova sonorità. Quando i gruppi registrano un album di jazz, di solito, tutto è fatto in maniera molto semplice e immediata. Noi abbiamo prima registrato e poi ci siamo messi al lavoro sulla ‘forma’ dell’album, con l’aggiunta anche di una certa dose di elettronica. Una produzione pop, insomma, con tanto lavoro in più rispetto alle registrazioni jazz tradizionali.
Anche in questo nuovo disco, ci sono solo composizioni originali, niente standard.
È il nostro marchio distintivo: l’ingrediente fondamentale di tutti i nostri album, comporre e creare delle nuove tracce.
Nei precedenti lavori c’erano omaggi a grandi musicisti della vostra terra. Ce ne sono anche in questo disco?
Sì, assolutamente. Ci sono omaggi ad uno dei migliori batteristi svedesi di sempre, Magnus Öström, che ha sperimentato per tutta la sua carriera e noi ci siamo sempre ispirati alle sue metriche per scrivere i nostri pezzi.
“Ding Dong” è stato registrato a distanza di sei mesi, in due sessioni. La prima con la neve, durante una tempesta, il giorno dopo Capodanno. La seconda in estate, al fresco, sempre sulla stessa isola di Runmarö, in Svezia. È stata una scelta voluta o casuale?
Ottima domanda. L’idea era di registrare tutto all’inizio di gennaio, ma poi non abbiamo avuto abbastanza tempo e si sono aggiunti nuovi brani, così abbiamo deciso di fare una nuova sessione in estate. Credo che qualcosa sia successo tra le due sessioni, tanto da incidere sull’intero lavoro finale, ma non riesco a capire cosa, di preciso. Sicuramente avevamo bisogno di più tempo.
Dopo Esbjörn Svensson, ma anche grazie al tuo apporto, visto che da molti sei considerato il suo erede, cosa vuol dire, oggi, “jazz svedese”?
È una grande eredità per noi, senza dubbio, perché c’è tanta storia dietro. Significa molto essere cresciuti con una tradizione così importante, ma sapevamo anche che potevamo trasformare un sogno in realtà, lavorando tanto e con impegno, fino a farne parte. Il jazz svedese ha ormai una tradizione, un suo stile, ma quando suoniamo in giro non sentiamo questa responsabilità. La rispettiamo, certo, e siamo contenti di farne parte, questo sì.
Brescia, Roma, Napoli e via con il sud Italia: qual è la reazione del pubblico italiano a questo disco?
Non è mai facile accorgerti della reazione del pubblico ma, almeno fino a questo momento, direi che è molto buona. Alle persone sembra piacere il disco e siamo stupiti, a volte, del feedback positivo che ci comunicano anche verbalmente.
Si può dire che con questo disco Daniel Karlsson “si smarca” definitivamente dall’ombra di Esbjörn Svensson, andando verso una propria riconoscibilità artistica assolutamente evidente?
Il mio background è lo stesso di Svensson, entrambi veniamo dalla stessa scuola e ciò è innegabile. Ma la mia opinione è che questo non è il primo disco in cui, come band, troviamo un nostro sound personale, riconoscibile. Quindi direi che sì, sicuramente ci siamo ritagliati un nostro spazio, certo.
Nei tuoi lavori, non disdegni l’uso dell’elettronica: è, questa, l’unica via per trovare nuove evoluzioni nel jazz?
È solo una strada, l’elettronica. Ritengo che qualsiasi genere possa essere mischiato con altri generi: tutta la musica ha tanti ingredienti che possono creare qualcosa di nuovo a seconda di come li mescoli, anche quando si parla di jazz, senza dubbio. Bisogna sperimentare.