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Danilo Gallo
Bisogna sporcarsi di musica
Speakers’ Corner

Danilo Gallo</br>Bisogna sporcarsi di musica</br>Speakers’ Corner
Photo Credit To Kathya West

Danilo Gallo, contrabbassista e bassista, è fondatore de El Gallo Rojo con Zeno De Rossi e Massimiliano Sorrentini, una factory creativa che è al tempo stesso etichetta discografica e collettivo musicale. Nato ufficialmente nel 2005, il conjunto raccoglie una quindicina di musicisti e si auto-finanzia, auto-determina, auto-produce e auto-promuove.

 di Danilo Gallo

Il problema della pubblicazione di un cd, della sua necessità e della sua urgenza è un problema che mi pongo pressoché quotidianamente, dato che registrerei un disco al giorno, essendo io, per indole, sempre alla ricerca di “nuova musica”. Onestamente non sono mai riuscito a dare una risposta “scientifica” ed esaustiva. Credo che, da un lato, l’urgenza espressiva e quindi comunicativa (pubblicazione) sia endogena all’esigenza del confronto e del riscontro, che per alcuni musicisti può essere più frequente, per altri meno. Francamente, da questo punto di vista, pertanto, non mi sento di dire che esistono dischi inutili o, peggio ancora, musica inutile. D’altro canto non è da sottovalutare il discorso che il produrre un disco rappresenti un tassello per la carriera di un artista, ma non necessariamente con un significato “cronologico”, ma piuttosto come un punto che può essere unito a un altro (come nella settimana enigmistica) a prescindere dalla direzione, per poi colorare lo spazio intercorso.
Per quel che mi riguarda trovo poi molto divertente e affascinante il lavoro in studio, il suonare e comporre un’opera musicale in studio. È sicuramente molto intimo, ed è come porsi davanti allo specchio. Amo molto, ovviamente, suonare dal vivo, ma non mi piacciono molto i dischi live. Questo, per me, è un motivo sufficiente per continuare a fare dischi in studio e pubblicarli. Il disco lo vedo come un punto di incontro tra l’inconsapevolezza dell’esistenza della propria musica e la consapevolezza dell’inesistenza della stessa, una sorta di paradosso di Zenone, un punto fondamentale, necessario per l’artista, per andare a quello successivo, in un disegno che va avanti all’infinito. Qui si pone il problema del contenitore dentro al quale andrà a finire il disco, sia dal punto di vista concettuale – quindi la discografia dell’artista e quindi tutti i bei discorsi sul mondo dei discografici, sul senso della loro opera, in taluni casi imprenditoriale, in altri missionaria, e del mercato (in senso lato, come luogo di destinazione, anzi, destino) annesso, nonché della sua fruibilità e utilizzo – sia dal punto di vista materiale, cioè del supporto fonografico.
Come spesso ho sostenuto in qualche intervista, penso che quella del discografico sia una figura che non esista più, salvo rare eccezioni, o che comunque stia scomparendo: non c’è più quella persona che investe in un musicista, un progetto, un gruppo perché ci crede, assumendone i rischi e quindi anche la gloria eventuale. Il discografico, nel 90% dei casi, è una persona che vuole il master bello e pronto, ti obbliga a cedergli il 50% dei diritti d’autore con le edizioni dei brani originali (per una strana prassi a me ignota, e se fai un disco di “cover” è molto meno probabile che te lo produca), e poi ti chiede anche svariati euro a copia per farti ricomprare il “tuo” disco che tu hai prodotto dalla A alla Z. Un po’ come la storia del contadino che lavora nelle sue risaie, e per avere un po’ di riso a casa sua deve poi andarlo a comprare al supermercato. Ecco, il discografico, spesso, purtroppo, è come l’amministratore delegato di un supermarket, e a lui spesso e volentieri non interessa granché di quello che tu fai, di quello che suoni e di quello che lui stesso sta per produrre. Il tuo disco come il mio sono uguali e quindi finiranno negli scaffali dei loro capannoni o a casa del musicista se ha i soldi per “ricomprarselo”.
Capita poi spesso che un disco abbia una “scadenza”, proprio come un prodotto del supermercato, e che vada “consumato preferibilmente” entro la data che il sistema mass-mediatico decide. Mi capita spesso di sentirmi dire: «Eh, ma quel tuo disco è di cinque anni fa, è vecchio, non può essere recensito, non può essere venduto…». Lo trovo assurdo. Anche per il discorso sul “percorso infinito” di un’artista, che accennavo prima. Francamente sono pochi quelli che veramente svolgono il mestiere di discografici nel senso di produzione artistica ed esecutiva, e in quel caso il loro intervento ben venga, perché si tratta di un intervento di grande valore “culturale”. Rivoluzionario in un certo senso. Del resto la cultura è la rivoluzione stessa. E hanno tutta la mia stima perché “rischiano” in un momento in cui il rischio è pericoloso.
In questo scenario da supermercato e regole imposte, nonché fasulle, per istinto di sopravvivenza, si cerca di salvaguardare il proprio percorso artistico e anche produttivo, dove, per una volta l’aggettivo “produttivo” non vuole assumere un significato meramente collegato al solo interesse monetario, ma piuttosto a quello della sfera creativa. Quindi spesso si sente l’esigenza di essere indipendenti e, se l’unione fa la forza, di organizzarsi in forme autonome, in consorzi culturali di persone che condividano idee musicali, attitudini, progettualità, per portare avanti le proprie idee e farsi largo senza troppi compromessi, senza voler e dover essere etichettati in uno stile o genere musicale, senza nessun tipo di logica commerciale e di impresa. O perlomeno senza “troppo” di tutto ciò. In altri termini, senza dover chiedere il permesso a nessuno. In seno a queste visioni nascono, appunto, i collettivi di cui è molto interessante anche la convivenza delle loro biodiversità, in una sorta di rivale complicità.
Credo che quindi l’espressione “collettivo artistico” non sia solo un’espressione ma un dato di fatto concreto, un’identità, una realtà, nel panorama odierno, che possa aiutare il singolo artista a sopravvivere, altrimenti si rischia di finire nel calderone del tutto/niente, o nella solita piramide gerarchica del vassallaggio. La collocazione a livelli non mi piace, siamo tutti esseri che volano a varie altitudini sul proprio tappeto volante e siamo (dobbiamo esserlo!) tutti sognatori. I sogni non possono essere omologati. Tantomeno stratificati. Ognuno di noi può e dovrebbe essere un vertice, per questo preferisco una struttura sociale tipo quella del grafo completo, dove tutti i vertici siano collegati tra loro. Ma stiamo entrando in un’altra sfera, tra l’utopia e il sentimento. Tra l’anarchia e il romanticismo.
Il fenomeno dei collettivi in Italia intrapreso negli anni Novanta da Bassesfere a Bologna, poi ripreso negli ultimi dieci anni da diverse realtà, tra cui quella che mi riguarda, El Gallo Rojo, ha dato a mio avviso uno scossone non indifferente di presa di coscienza del fatto che se ci si organizza, ci si auto-tassa, ci si auto-promuove, probabilmente ci potrà essere qualcosa di “diverso” e “alternativo” nel panorama musicale “di facciata” nazionale. L’unione fa la forza, dicevo, e la capacità comunicativa del gruppo rispetto al singolo quindi, forse, aumenta. I vari collettivi esistenti in Italia sono spesso in contatto tra loro (rivale complicità) e spesso i musicisti afferenti alle varie realtà si interscambiano per formare gruppi “misti”. Ogni collettivo è quindi un vertice del grafo completo. Così come ogni artista. Mettersi insieme per condividere, programmare, sviluppare progetti musicali e artistici insieme, confrontarsi come musicisti, all’interno del proprio “consorzio”, ma anche trasversalmente tra i vari collettivi, diviene fondamentale. Vorrei sottolineare che per me il concetto di “collettivo artistico” si può riferire anche ad una singola band: credo che anche quando si e’ leader di un gruppo sia importante esaltare la biodiversità dei membri del gruppo stesso, in maniera tale che tutti i componenti siano, appunto, “vertici” della band. Il discorso si interseca con quello dell’onesta’ intellettuale, che e’ determinante. Noi musicisti abbiamo delle responsabilità enormi, deontologiche, siamo coloro i quali dovrebbero essere distanti dalla patina massmediatica di sistema, dalla sua piramide, e creare invece alternative di contiguità col popolo, col pubblico. Dovremmo provocare, se e’ il caso, nel senso di “scuotere” le coscienze e far pensare, che poi siano pensieri belli o brutti poco importa, ma molto meglio dei finti pensieri delle menti imbalsamate che questo sistema politico/culturale ha creato, e badate bene che questo sistema e’ anche nel mondo musicale e quindi anche nel jazz.
Tornando al discorso “produttivo”, l’autonomia, o meglio, l’indipendenza è fondamentale. Quindi, di conseguenza, l’alternativa. Ergo, rimanere “di nicchia”, è plausibile, ma non per snobberia, ma perché per assurdo si può prestare più attenzione alle cose “difficili” da ricercare, si possono evidenziare momenti e percorsi che altrimenti sfuggirebbero in tutto quello che ti passa come un fiume in piena ogni giorno. Nicchia come “rifugio”. La nicchia, l’alternativa, l’autonomia sono gli strumenti a disposizione, che dovremmo utilizzare tutti, anche da singoli, se non appartenenti a collettivi. L’onestaà intellettuale però spesso non paga in termini di visibilità e “commerciabilità’. Mi rendo conto. Ma l’anarchia, come istinto di sopravvivenza, intesa come autoregolamentazione, acculturazione critica, per piccoli collettivi resta, per me, l’unica strada percorribile, affinché gli individui, in questo caso gli artisti, siano se stessi e non il prodotto di resettazioni o condizionamenti socio-culturali. L’autonomia quindi, nel senso di autoregolamentazione, che si fonde con il principio universalistico di eguaglianza. Per un musicista, il disco e la sua storia sono l’elemento comunicativo e il mezzo di divulgazione del suo pensiero.
Di qui mi collego a un discorso più tecnico: in un mondo dove tutto viaggia in rete, si comunica con un semplice e veloce click, in cui tutto è virtuale, compresa la musica, resto fedele, forse dato il mio animo nostalgico, alla necessità di un supporto fonografico materiale. Come per un libro cartaceo (odio leggere sul tablet), la musica ha bisogno di fisicità, bisogna toccare il contenitore dell’opera musicale a cui ci si approccia. C’è una storia nella cover, nella scelta del formato, nella carta, nei colori, nei disegni, nei libretti, negli errori dei libretti stessi, e anche nella libreria/teca dove andranno a finire i dischi. Si evince che io sia un po’ distante dalle nuove tecnologie di utilizzo della musica, come il download o lo streaming. In realtà non esprimo un giudizio, resto semplicemente fedele alle mie modalità e cerco di tenerle in vita finché posso. Giuro che non ho mai visitato il sito di Spotify, ad esempio. Questo perché credo che bisogna “sporcarsi” di musica, toccare il suo terriccio, e questo diviene un po’ più difficile se alla musica ci si avvicina virtualmente.
Con diversi gruppi, ad esempio, sono tornato al vinile. Alla musicassetta in qualche caso. Ancora oggi, prendendo in mano un disco comprato con i risparmi, che ne so, negli anni Ottanta, mi emoziono. Come quando apro un libro, letto venti anni fa, e sottolineato nei paragrafi. Sono consapevole che non ci sia alcuna valenza economica nel continuare a produrre un supporto materiale che verrà poi downlodato in rete, che quindi spesso è un costo enorme sia nell’aspetto produttivo sia nel suo acquisto da parte del pubblico, ma cercherei di sforzarmi e di continuare a rendere umano qualcosa che umano lo è, la musica. Non sopporto ascoltare concerti su YouTube, andiamo nei locali, andiamo a toccare le corde di una chitarra che suona o le bacchette di una batteria, a sentire le loro vibrazioni, gli sguardi dei musicisti. E alla fine, se il concerto ci è piaciuto, compriamoci il disco: quel disco continuerà a parlarci di quel gruppo e di quel momento. Fermiamoci su quel disco, ascoltiamolo mille volte: vi garantisco che potrà sempre fornirci nuove sensazioni e stupirci! Per dirla alla Banksy: «Art should comfort the disturbed and disturb the comfortable». Questo processo non può essere virtuale.
Può un click e un ascolto di qualche secondo essere metabolizzato dalla nostra pancia e dal nostro cervello, confortare i nostri animi irrequieti e scuotere la serenità degli stessi?