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Carro armato rosa</br>Intervista alla Pink Tank Band
Photo Credit To Celeste Lombardi

Carro armato rosa
Intervista alla Pink Tank Band

Abbiamo incontrato la Pink Tank Band, una big band composta da sole donne: un ensemble che si distingue per identità ma anche per repertorio, per produzione e organizzazione interna. Abbiamo fatto poche domande, con l’obiettivo di coinvolgere quante più protagoniste: sono intervenute come portavoce della Pink Tank Band J.G. (Joy Grifoni, contrabbassista), I.T. (Ilaria Tengatini, pianista), S.P. (Serena Perini, flautista), C.M. (Cecilia Maruelli, violinista), L.G. (Luisa Giovanelli, sassofonista), E.D. (Eleonora Dettole, cantante) e F.P. (Francesca Petrolo, trombonista). Le foto presentate sono opera della fotografa Celeste Lombardi.

Di   Luciano Vanni

Partiamo innanzitutto dalla vostra orchestra: come, quando e soprattutto perché nasce?
J.G. / Mi piace pensare alla Pink Tank Band più come ad una specie di famiglia allargata che ad un semplice progetto artistico. Molte di noi già collaboravano insieme in vari gruppi musicali prima ancora che questa bellissima esperienza iniziasse, ed è stato grazie alla nostra voglia di condivisione che nel 2015 ci siamo poi riunite in un organico così sostanzioso e compatto. Il passaparola ha fatto in modo che ad un primo nucleo di amiche di vecchia data si unissero molte altre donne incuriosite dall’idea di suonare jazz insieme e oggi siamo quasi in trenta!

A dire il vero l’idea di creare una band che incentivasse la partecipazione delle donne era nell’aria già da un po’: qualche anno fa fondai a Roma un piccolo laboratorio di musicoterapia, e ben presto alle ragazze del gruppo si aggiunsero musiciste di ogni estrazione. La mia più grande emozione fu quella di vederle giocare insieme con la musica, al di là delle proprie differenti storie; è stato grazie a questo bisogno di sorellanza che oggi la Pink Tank Band rinnova quello stesso cerchio in cui tutto si ricongiunge in uno scambio autentico. L’improvvisazione può essere una strategia molto potente per la condivisione del proprio vissuto interiore, e non è certo un caso che tutta questa esperienza si basi su un linguaggio musicale in gran parte improvvisato. Sono davvero orgogliosa del potenziale ideativo che sto osservando nel mondo femminile.

I.T. / Quando sono stata coinvolta nell’organico della Ptb ho accettato ben volentieri questa bella sfida perché penso sia estremamente interessante sotto tantissimi punti di vista. Sono fermamente convinta che ognuna di noi abbia qualcosa da dare, anche quelle di noi che provengono da mondi musicali apparentemente lontani dal jazz. Improvvisare insieme ci dà la possibilità di mettere alla prova la nostra versatilità, non solo tecnica, ma anche di pensiero! Sono convinta che in Italia non ci sia ancora uno spazio espressivo sufficiente per le donne, che meriterebbero maggiori chance per imparare a collaborare con crescente consapevolezza del proprio potenziale creativo. In una società dove la differenza tra uomo e donna si fa ancora sentire, è ora di ritagliarsi spazi ideativi del tutto inediti.

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Cosa significa organizzare una big band di sole donne? Quali gli ostacoli e quali le soddisfazioni?
S.P. / Il progetto che dà vita a quest’orchestra è ben più complesso di quello che si possa immaginare in apparenza e ci impegna quotidianamente moltissimo sotto diversi punti di vista, sia organizzativi che di ricerca creativa. Fortunatamente il nostro gruppo è fatto di persone estremamente collaborative e sensibili, ed è grazie a questo se riusciamo ad unire positivamente le nostre qualità musicali al lato giocoso della musica al fine di poter restituire qualcosa di importante alla comunità attraverso la musica. L’idea di un’orchestra al femminile permette all’occhio delle nuove generazioni di coltivare uno sguardo differente sulla questione della parità di genere. Le immagini, come sappiamo, trasmettono messaggi potenti. I nostri occhi sono troppo abituati a vedere incarichi di rilevanza ricoperti solitamente da uomini; è arrivato finalmente il momento di una parità sostanziale che implichi anche una differente gestione delle responsabilità gestionali.

C.M. / Organizzare una band è una cosa molto impegnativa. Proporre un progetto “no profit” a persone che con la musica ci vivono, in questo periodo e in questa società, non è come accendere la luce sapendo che tutte le mosche arriveranno. Bisogna riuscire a trasmettere la propria piena fiducia nel progetto e far sposare la causa anche alle altre musiciste. La soddisfazione finale poi è quella di vedere formarsi un motore composto da svariati ingranaggi che lavorano tutti per un unico scopo, quello di far avanzare il carrarmato rosa!

L.G. / Io ho iniziato a suonare da ragazzina proprio in un gruppo femminile ed è stata una parte fondamentale della mia vita. All’epoca non avevamo progetti solidali, avevamo solo tanta voglia di esprimere noi stesse. Adesso, dopo tanti anni e tanti gruppi, questo progetto mi entusiasma davvero, forse proprio perché non si tratta solo di suonare, ma di respirare più a fondo degli ideali comuni insieme ad altre musiciste che, se pur provenienti da esperienze diverse, condividono tutte la stessa voglia di fare qualcosa per altre donne meno fortunate. Credo che questo possa essere un segnale forte che possa servire ad accedere tante luci.

Che musica avete in programma?
J.G. / La Ptb è, in un certo senso, una band “autarchica”. Finora le prove sono state condotte lasciando spazio a chiunque fosse interessata all’esperienza della direzione. Solitamente ci disponiamo in cerchio attorno a chi si è occupata di stendere gli arrangiamenti, in modo che anche la meritocrazia trovi una sua piena ragion d’essere.

Anche il nostro repertorio è molto vario; si spazia dagli standard della swing era a composizioni più informali, di sapore third stream. La nostra scaletta annovera capolavori a firma di Melba Liston, Ann Ronnell, Dolores Silvers, Marian McParland ecc. Si tratta, insomma, di una sorta di “storia del jazz in rosa”, il cui scopo è quello di mostrare al pubblico il significativo contributo che molte donne hanno dato con il loro operato al mondo del jazz, per quanto questo sia stato finora un mondo quasi esclusivamente ad appannaggio maschile.

Fino ad oggi alla maggior parte delle donne del jazz è stato attribuito quasi esclusivamente il ruolo di cantante, di leggiadra front che catturasse l’attenzione del pubblico. La nostra ricerca vuole testimoniare come ci siano state anche tante importanti compositrici che dietro alle più incredibili big band hanno versato sangue e sudore della propria fronte.Per questo   nella nostra famiglia tutte siamo chiamate a scrivere, ad arrangiare, a condividere il podio. Persino alle cantanti è stato attribuito un ruolo strumentale, affinché tutte potessimo sedere l’una accanto all’altra senza alcuna disparità

E.D. / Sono per natura curiosa e sensibile a stimoli ed avventure musicali che mi arricchiscano ed amplino la mia conoscenza e la mia passione per il jazz e i diversi mondi sonori. Mi sento molto attratta dallʼidea di abbracciare un progetto di ricerca così importante con donne che arrivano da background musicali, sociali e culturali tanto diversi. Lo considero uno spazio di condivisione dove ognuna possa esprimere con entusiasmo la propria sensibilità, la propria personalità musicale e non. Credo che questa condivisione, insieme al gioco, siano fondamenti importanti nel processo creativo musicale e siano in grado di favorire la libertà espressiva e la crescita di ogni musicista. Mi piace inoltre lʼidea, come cantante, di essere parte dellʼorchestra in veste di ʻstrumento voceʼ e contribuire allʼensemble sonoro attraverso un ruolo armonico oltre che melodico. Condivido le motivazioni e le scelte sociali ed umanitarie che il progetto desidera testimoniare e sostenere attraverso le proprie performance, nella convinzione che la musica sia lʼenergia vitale che tutti accomuna ed unisce.

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Come vi state promuovendo e producendo?
J.G. / Le nostre iniziative si ispirano a quelle già sviluppate da WIMUST (Women in Music Uniting Strategies for Talent, organo nato per la salvaguardia delle pari opportunità lavorative in ambito artistico). Abbiamo utilizzato i maggiori social network per il reclutamento di bandi, collaborazioni ed organico. Speriamo di poter incrementare presto la nostra attività richiamando l’attenzione di nuovi possibili sponsor interessati al nostro gesto solidale. Il nostro primo ed entusiasta sponsor è stato il conosciutissimo Cavalli Musica. Pietro, proprietario e gestore illuminato, ci sta ospitando nel suo stupendo auditorium, risolvendo così un problema non indifferente per un organico come il nostro. Per merito del gentile interessamento di numerose madrine bresciane anche il Giornale di Brescia si sta appassionando alla nostra storia e presto verrà pubblicato un interessante articolo sul nostro progetto. Grazie al positivo riscontro mediatico che il progetto sta ottenendo sono intervenute in nostro favore autrici e compositrici di tutto il mondo, le quali ci hanno gentilmente donato alcune loro composizioni rivisitate ad hoc per la nostra orchestra. Stanno collaborando con noi anche importanti artiste italiane del calibro di Ada Rovatti, Giuliana Soscia, Cettina Donato. L’artista che ci ha sorpreso di più in assoluto è stata senz’altro Carla Bley, la quale ha voluto generosamente donarci un suo bellissimo arrangiamento in omaggio alle donne del Messico.

Paolo Conte, nella sua celeberrima ‘Sotto le stelle del Jazz’, ha inserito una frase forte, ancora oggi ampiamente citata: “le donne odiavano il jazz’. Secondo te, cosa voleva intendere Paolo Conte? E a tuo avviso, che rapporto hanno le donne con il jazz?
F.P. / A questa domanda risponderei come fece Duke Ellington quando gli chiesero se fosse meglio il jazz o un altro genere. Egli disse “Esiste solo buona musica e cattiva musica e io mi occupo della prima”. Io direi che esistono persone che amano il jazz e persone che lo odiano, io faccio semplicemente parte del primo gruppo. Non credo sia questione di cromosomi, ma di gusto.

J.G. / Il nostro credo basilare è che giocare è il modo migliore per risolvere ogni tipo di difficoltà. Non a caso in moltissime lingue la stessa parola viene usata per descrivere sia l’atto del suonare che quello del giocare (un esempio ne è il vocabolo inglese “Play”). Giocare ci fa tornare bambine, giocare responsabilmente ci aiuta a crescere. Giocare insieme ci aiuta a non sentirci più sole. Giocare ci fa sentire finalmente pronte ad essere protagoniste del nostro destino.