24 febbraio 2023
Intervistiamo il batterista, compositore e didatta romano Ettore Fioravanti, il quale ci racconta “Attraverso ogni confine”, il suo ultimo lavoro discografico registrato all’Auditorium Parco Della Musica e pubblicato dall’etichetta discografica Parco Della Musica Records.
a cura di Andrea Parente
Buongiorno caro Ettore e bentornato su Jazzit. Partiamo con un pensiero sui difficili ultimi anni: la pandemia ha messo a dura prova gli aspetti lavorativi ed esistenziali degli operatori del mondo dello spettacolo. Cosa hai imparato da questa spiacevole situazione?
Per me è stato veramente un problema: in quel periodo, oltre a non suonare, come tutti d’altro canto, ho riscontrato notevoli difficoltà nell’intrecciare i rapporti con enti, istituzioni e persone che sovrintendono il mondo del jazz, tutto mi è sembrato più burocratizzato e preconfezionato, siamo tutti schiavi, chi più chi meno, dei bandi pubblici. Il lato positivo è che sia aumentato il riconoscimento ufficiale del lavoro del musicista jazz, sono nate strutture di collegamento con gli organi statali e la didattica nelle scuole pubbliche ha mostrato maggior attenzione all’universo della musica jazz, sia per quanto riguarda la sua importanza storica, che per ciò che concerne la sua rilevanza artistica, nonché per l’accresciuto valore riconosciuto agli insegnanti.
Passiamo al presente. Cosa ci racconti in “Attraverso ogni confine”, il tuo ultimo lavoro discografico pubblicato nel luglio del 2022 dall’etichetta discografica Parco Della Musica Records? A cosa allude il titolo?
Il motivo viene dal titolo di alcuni brani del disco, che alludono a località di confine (Bering, Gibilterra, Magellano): la vera realtà è che, come specifico nelle note di copertina, io sono sempre stato affascinato dalle linee di separazione, che tracciano una divisione spesso fittizia, molto più giuridica che concreta. Malgrado ciò, in quei luoghi si palesa la necessità di attraversare queste linee come atto formale, che non nega l’esistenza di ciò che ci fosse prima del confine, ma semplicemente lo evolve. Quindi è il concetto dell’”attraverso” che mi attrae, non l’”oltre”, e questo vale per la lingua, i costumi, le tradizioni popolari e quindi anche per la musica: quella che propongo è una musica che vuole passare attraverso, guardando in avanti ma pure indietro, con due occhi sotto la fronte e due sulla nuca. Visto che il disco è dedicato ai miei figli Antonio e Lucia, l’augurio è che la loro vita attraversi tutti i confini con lievità, curiosità e profitto.
Cosa lo differenzia dal tuo ultimo disco “Opus Magnum” (edito da AlfaMusic), pubblicato nel 2019?
Intanto la formazione: ci sono ancora Marco Colonna ai clarinetti e Igor Legari al contrabbasso, ma al vibrafono c’è Andrea Biondi, e questa è la formazione stabile del quartetto “Opus Magnum”. Inoltre su alcuni brani si aggiungono Francesco Fratini alla tromba e Filippo Vignato al trombone. Avevo bisogno di aumentare l’intreccio delle voci per ottenere quell’impatto simil-orchestra che mi è sempre piaciuto. Inoltre in “Attraverso ogni confine” ho voluto sottolineare, ancor più che nel disco precedente, la libertà interpretativa dei musicisti, che hanno a che fare con musica complessa nella forma, ma libera nella sostanza, e anche questo aspetto rappresenta per me un bipolarismo fertile, fonte di soluzioni sempre nuove e imprevedibili.
Quali sono i “confini” che ogni musicista dovrebbe superare per esprimere al meglio la propria personalità/musicalità?
Quelli che derivano dalle proprie convinzioni e dagli standard mentali/musicali che la sua esperienza potrebbe avergli creato. Spesso siamo schiavi delle nostre idee e le riteniamo intoccabili, al punto da farle diventare una bandiera della nostra personalità: poi ogni tanto succede di cambiare, anche un pochino, e di resettare l’intero sistema. Si tratta però, come dicevo sopra, non di superare la linea del proprio io, ma di attraversarla in avanti e indietro, con l’obiettivo di dare alla musica prodotta sempre nuove soluzioni. Un maestro in questo era Steve Lacy, ma anche Wayne Shorter e Ornette Coleman, sempre affascinati da qualcosa che fosse oltre e insieme consci delle proprie radici. È quello che vorrei fare io da grande.
Photo Credit To Flavio Ianniello
Piccola digressione temporale. Nel 2018 hai messo in piedi il quartetto “Opus Magnum”, che rappresenta la naturale evoluzione del duo composto da te e dal clarinettista Marco Colonna. Ci racconti la storia del progetto? Cosa ti ha motivato nel coinvolgere anche il vibrafonista Andrea Biondi e il contrabbassista Igor Legari?
L’esperienza in duo con Marco mi aveva insegnato a non lasciarsi condizionare troppo né dalla forma musicale che si decide di affrontare, né da linguaggi improvvisativi troppo codificati: in una parola avevo recuperato un atteggiamento più “free”, che è peraltro parte integrante della mia storia musicale. Quindi ho pensato di cercare musicisti che sapessero coniugare l’in e l’out, che dessero garanzie di rispetto per la musica scritta, ma anche di personalizzazione della stessa, con pronunce e modellazioni che fossero diretta conseguenza della loro filosofia musicale. Anche le parti in solo mi interessava che non fossero troppo delineate, quindi non legate a un chorus vincolato, ma fondamentalmente libere. E ti assicuro che questi tre musicisti sanno far bene il loro lavoro, ascoltandosi, rispondendosi, contrastandosi e ritrovandosi.
Photo Credit To Flavio Ianniello
Cosa ti ha motivato, invece, nello scegliere Francesco Fratini (tromba, flicorno) e Filippo Vignato (trombone) come special guest del disco?
Sentivo che alcune composizioni necessitassero di più linee musicali che si potessero intrecciare e sovrapporre, con l’obiettivo di creare una corposità orchestrale qua e là e con un’attenzione particolare alla scrittura, finalizzata a sottolineare la densità di cui avevo bisogno. Una line up con clarinetti, tromba e trombone è poi la riproposizione di quella tipica di New Orleans, di conseguenza mi sono prefisso di avere spesso assoli sovrapposti o comunque interventi di contorno al solista, quasi a incastonare gli assoli in un suono collettivo costante. Anche la batteria non ha ruoli predominanti, ma spesso detta la chiave ritmica all’inizio del brano, quasi a dire “sentite da dove sono partito?”. Infine fatemi dire che Francesco e Filippo sono due giovani dalle eccellenti qualità e dalla mente aperta, seri e disponibili, ma anche creativi e personali.
Photo Credit To Flavio Ianniello
Il disco è composto da otto brani originali, più una cover. Da cosa ti lasci ispirare quando componi?
Con il tempo ho imparato a partire da stimoli diversi: intanto le tre fonti ispiratrici classiche della musica, ovvero ritmo, melodia e armonia, possono essere ognuna di loro una radice da cui far germogliare il pezzo, poi trovare nella forma tematica elementi utili alla sua elaborazione e talvolta anche all’improvviso cambio di colore e di dinamica, come fosse un’estrinsecazione con le note di quello che faccio con la batteria, infine pensare allo spazio di libertà e manipolazione da parte degli interpreti. In “Attraverso ogni confine” ci sono brani con forte matrice ritmica (Gibilterra, Magellano e Cliptime), brani dove il volo melodico prende il sopravvento (Volskov e Vermiglio), e altri con una pasta armonica consistente e ambigua (Garbo). E poi c’è Ho visto un re…
Ho visto un re, appunto, brano interpretato da Enzo Jannacci con il testo composto da Dario Fo, è l’unico brano non inedito del disco. Ci motivi tale scelta?
Avevo già registrato un brano cantato e composto da Enzo Jannacci (Vengo anch’io, nell’album “Florilegium” del 2000), l’ho sempre trovato vicino al mondo del jazz, nonché un esempio di caratterizzazione nella scelta dei brani e nel modo di cantarli. Ho visto un re ha nel testo di Dario Fo (la musica è di Paolo Ciarchi) gli elementi della sua genialità teatrale: prima di tutto l’attenzione al sociale e al politico, con la contrapposizione di poveri e ricchi, sottoposti e potenti, poi il forte senso di ironia, con il prendere in giro sia il contadino che il vescovo, quasi a dire “la serietà ci rende anemici”, e per finire la coralità teatrale, il passarsi la palla e il rispondersi a tono e fuori tono, il declamare e il commentare. Ebbene nella canzone c’è tutto questo e mi piaceva l’idea di renderlo con l’intreccio dei tre fiati, che in qualche modo impersonano i personaggi della commedia: quindi lo spazio è tutto per Marco, Francesco e Filippo, e la ritmica funge da orchestrina di sottopalco, come negli avanspettacoli o nei vecchi musical.
La tua formazione è un quartetto. Cosa determina questo a livello timbrico, espressivo e di arrangiamento?
La timbrica vibrafono/clarinetti, più la ritmica, è storicamente originale, non è un caso che i riferimenti critici al nostro suono siano stati al Modern Jazz Quartet o ai gruppi di Chico Hamilton, comunque a espressioni di avanguardia sonora vicina alle tradizioni “accademiche”. Lo sforzo è quello di sganciarci dagli stilemi storici e creare un suono riconoscibile, che vada al di là della strumentazione e riguardi la qualità degli strumentisti. Le composizioni sono destinate a svolgere un ruolo fondamentale a questo fine, purché mettano in risalto le qualità degli strumentisti ai fini della doppia valutazione, quella della performance compositiva e quella della validità improvvisativa. Il quartetto sviluppa un filo logico di affiatamento e di unità stilistica e questo rimane lo scopo principale del nostro suonare insieme.
In base alla tua esperienza, qual è la differenza sostanziale tra l’essere “sideman” e l’essere “leader” di un progetto? In quale delle due vesti ti senti più a tuo agio? Quale prediligi di più tra le due?
Non mi interessa il diverso ruolo di sideman e leader, quel che conta di più è che sia nelle mie corde e che la qualità del progetto sia alta. Credo fortemente che nel mio essere sideman conti soprattutto essere portatore di un suono e di una personalità musicale, e tutto sommato lo stesso vale anche per i gruppi in cui sono leader. E paradossalmente può succedere che io mi ritrovi ad essere più a mio agio in un contesto dove non sono leader, proprio perché non ne ho titolarità e quindi responsabilità storica. Ciò non toglie che, se decido di partecipare a un progetto, dò sempre anima e corpo, e se lo faccio condivido le indicazioni del direttore dell’esecuzione, al fine di ottenere il meglio.
E infine, quali sono i tuoi progetti futuri? Quali, invece, gli obiettivi che ti poni adesso?
Punto a proporre la musica di Opus il più possibile e dove possibile, tenendo conto anche dell’ambito estero. Chiedo al mondo del jazz italiano di aiutarmi soprattutto sul piano del management e del booking, ma so anche che questo dipende dalla qualità del progetto, quindi lavoro per qualificarlo al meglio, sia dal punto di vista promozionale, che da quello della resa sonora: ma voi che mi leggete, se credete che il mio progetto valga, fate in modo che se ne parli e venga ascoltato. Il mio dovere è far bene la mia musica, quello degli ascoltatori è di godere dei suoi benefici, se ve ne sono, attraversando qualunque confine.
INFO
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