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Alessandro Galano
The Man I Love
La versione di…

Alessandro Galano<br/>The Man I Love<br/>La versione di…

26 gennaio 2020

L’ottava puntata della rubrica di Jazzit a cura di Alessandro Galano

Trovare la versione, scovare la chicca. Collegare epoche tra loro distanti ricongiungendo sonorità e linguaggi: giocare con il jazz, insomma, provando a dare un ordine – o una bozza – al meraviglioso disordine che lo sostanzia. Ecco il senso di una rubrica per puri perdigiorno jazzofili, sempre a caccia di questa o quella rivisitazione di questo o quel brano: piccolo treno che schizza sulle rotaie della storia e che non può non partire da lontano, in ossequio alla tradizione.

Di Alessandro Galano

E pensare che all’inizio non piaceva. Anzi, era stato proprio scartato.

“The Man I Love”, sì. Standard jazz tra i più suonati di sempre, uno dei grandi classici della musica del Novecento. Firmato negli anni ’20 dai fratelli George e Ira Gershwin e, almeno all’inizio, scartato dagli stessi in occasione dei loro spettacoli a Broadway. Cancellato nel ‘24 dal musical “Lady, Be Good!”, incluso e poi cassato nel ’27 da “Strike Up The Band”, riprogrammato in “Rosalie” nel ’28 senza però mai andare in scena, abbandonato poco prima di salire sul palco.

Il perché? Vai a capire – già, valli a capire i geni.

Sta di fatto che uno dei brani più romantici di sempre rischiava realmente di mancare l’appuntamento con l’eternità: non fosse stato per l’ultima viceregina d’India, sarebbe caduto nel dimenticatoio. Già, Lady Edwina Cinthya Annette Mountbatten, contessa, viscontessa, baronessa e consorte del conte Louis Mountbatten, ereditiera e nobile inglese spesso protagonista dei rotocalchi d’oltremanica per il suo stile di vita piuttosto “ruggente”. D’altronde, erano gli anni giusti per esserlo e non è un caso che Lady Mountbatten, già in occasione del suo viaggio di nozze in America, nei primi anni ’20, fosse entrata nelle grazie dei due fratelli compositori di origine ebrea. Anzi, il contrario: furono i Gershwin a entrare nelle grazie della nobildonna, se è vero che a lei si deve la sopravvivenza e il lancio del nostro “The Man I Love”. Al rientro dagli States, infatti, la bella Edwina si portò dietro una copia dello spartito, in Inghilterra, nella sua Brook House di Park Line, la villa londinese in cui si suonava la musica che andava di moda all’epoca: il jazz. Qui, praticamente a orecchio, la band da ballo di villa Mountbatten, la Berkeley Square Orchestra, cominciò a suonarla ogni sera per il pubblico più à la page di Londra. Ben presto, nella capitale del Regno Unito prima ancora che in America, la canzone divenne ciò che comunemente si dice una hit.

Tuttavia, la prima registrazione di successo avrà luogo a Chicago: un 78 giri datato 8 dicembre 1927 che, sull’onda della spinta europea, spopolerà in classifica dal 1928 in poi. Merito soprattutto della sua vocalist: Marion Harris. Chi è Marion Harris? Un’ispirazione, innanzitutto. Una grande, grandissima ispirazione. Perché non è un caso che le versioni di “The Man I Love” di Billie Holiday (la migliore dal vivo è quella del ’46, “Live jazz at Philarmonic”) ed Ella Fitzgerald (la più classica delle sue registrazioni è inclusa in un The Best dedicato ai Gershwin datato ’59, ma le migliori versioni, al solito, sono quelle dal vivo) siano ampiamente debitrici, per stile, della sua interpretazione.

Anzi, non è azzardato affermare che, tra le versioni cantate, con ogni probabilità la perfezione si collochi al centro di un triangolo composto da queste tre eroine del jazz. Due di colore, successive e famosissime; una bianca, archetipica e meno nota, anche se in grado di cantare il blues con la stessa intensità di un’afroamericana, proprio come disse di lei WC Handy – soprannominato “il padre del blues”. Peccato solo per la sua parabola, di Marion, che incarna in tutto e per tutto la schizofrenia del XX secolo. Dopo i successi di fine anni ’20 e le registrazioni per la BBC di Londra, città in cui aveva scelto di vivere a partire dal 1931, la prima voce bianca che i compositori afro avessero mai amato impattò con la seconda guerra mondiale: un missile tedesco distrusse la sua casa londinese, costringendola al rientro a New York dove, reduce da un esaurimento nervoso, morirà il giorno del suo quarantottesimo compleanno, nel ’44, addormentandosi con una sigaretta accesa che causerà l’incendio dell’albergo che la ospitava.

Ma al di là delle storie che un brano così immortale si porta dietro, c’è sempre la musica. E che musica. Tra le innumerevoli versioni strumentali che meritano menzione, subito due, enormi: Art Tatum e Mary Lou Williams. Quanto al primo – che secondo la leggenda una volta fu introdotto dal grande Fats Waller con queste parole: “Dio è appena entrato in sala e io sono seduto al suo posto” – ne dà un saggio in “Piano Stars Here” del 1933: il tempo è medio, un uomo solo (peraltro quasi cieco) è al comando ma, diamine, le mani sulla tastiera sembrano realmente quattro.

In merito alla seconda, invece, bisogna andare al 1976, Live at Cookery, una registrazione pubblicata postuma, nel ‘90, in cui i bicchieri e il brusio della gente fanno da tappeto alla “first lady del pianoforte”, com’era nota tra i suoi, una che diede dritte a Theo Monk e Charlie Parker e che forse, nonostante la grandezza (si ascolti l’intero album citato), non ha mai ricevuto la fama che avrebbe meritato – “Ho fatto quello che ho fatto – disse di sé alla fine della carriera – through muck and mud”: tra il fango…e il fango.

Dal pianoforte al sassofono, quello di Lester Young, in trio nel 1946 con un sideman d’eccezione: Nat “King” Cole. La sua “The Man I Love” spicca per eleganza, timbro, gradevolezza. E ancora, altro giro altri fiati: Miles Davis And The Modern Jazz Giants, pubblicato da Prestige alla fine degli anni ‘50, in cui il brano dei Gershwin è una ballata sontuosa arricchita dalla presenza di Milt Jackson al vibrafono e Theo Monk al piano – in realtà il disco ne contiene due, di versioni, una più classica e una più “aperta”: in quest’ultima, inoltre, Monk sbaglia l’entrata ma Davis dice al tecnico di tenere tutto – “Hey Rudy, put this on the record”.

Quanto alle big orchestra, poi, difficile tenere il conto delle interpretazioni. C’è quella di Paul Whiteman, di Fred Rich e quella, forse la più suggestiva, di Benny Goodman, tutta strumentale e realizzata alla Carnegie Hall nel 1937, con Count Basie, Teddy Wilson, Gene Krupa, Lionel Hampton e altri grandissimi – ma non è affatto male neanche la versione con Helen Forrest alla voce.

Infine, una digressione contemporanea, anzi due. Una buona e una cattiva.

La prima, quella buona, si chiama Hindi Zahra, cantante marocchina ma parigina d’adozione: la sua “The Man I Love” è sospesa tra Oriente e Occidente ed è realmente un’idea originale, un modo pop ben congegnato di rivisitare con i guanti, in chiave personale, qualcosa di estremamente prezioso.

La seconda, quella cattiva, in realtà non è cattiva, ma soltanto triste. È l’interpretazione di Adriano Urso, rintracciata in un video realizzato con il telefonino durante un concerto al Gregory’s di Roma, probabilmente nel 2012: c’è gente che mormora, i bicchieri che schioccano, qualche risata e c’è una band, dal vivo, che suona. Un artista rispettabile che di lavoro faceva il musicista ma che, a causa del covid, si era messo a consegnare pizze. È morto d’infarto lo scorso 10 gennaio mentre spingeva la sua auto rimasta in panne, durante una consegna, nel traffico di Roma.

Questo articolo è dedicato a tutti gli Adriano Urso che per vivere hanno sempre e solo suonato, e che qualcuno si è dimenticato. Resistete, ragazzi. Resistete.

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