
19 maggio 2020
Terza puntata della nuova rubrica di Jazzit a cura di Alessandro Galano
Trovare la versione, scovare la chicca. Collegare epoche tra loro distanti ricongiungendo sonorità e linguaggi: giocare con il jazz, insomma, provando a dare un ordine – o una bozza – al meraviglioso disordine che lo sostanzia. Ecco il senso di una rubrica per puri perdigiorno jazzofili, sempre a caccia di questa o quella rivisitazione di questo o quel brano: piccolo treno che schizza sulle rotaie della storia e che non può non partire da lontano, in ossequio alla tradizione.
Di Alessandro Galano
Nel 1941, quando suonava ai tè danzanti a Le Doyen, Django Reinhardt guardava fuori, sugli Champs-Elysées, dalla finestra. Poi, nel pieno della serata, si fermava di colpo e diceva alla band di andargli dietro – “ma piano, solo quando avete capito la melodia”. Parigi a quei tempi era il bordello della Wehrmacht: occupata e festosa nei quartieri “tedeschi”, disoccupata e affamata altrove – Goebbels coniò persino uno slogan per i suoi connazionali: “Tutti. Una Volta. A Parigi”.
E Django? Django girava con due orologi d’oro, in smoking bianco, e sembrava fregarsene del mondo in rovina – era un manouche, Hitler ne avrebbe uccisi circa seicentomila di quelli come lui, ma non riusciva a inquadrare la cosa così come l’aveva sempre vista: una roba da “gadjé”, da non-rom, che bisognava aggirare. Quelli stavano giocando alla guerra? Bene, s’era detto, troviamo un modo diverso per aggirare il sistema.
L’unica cosa che sapeva fare Django era suonare. “Nuages”, fu il suo modo di salvarsi la vita.
Chi gliela sentì eseguire per la prima volta raccontò che gli arrivò dal nulla, al solito. Un brano un po’ Stravinsky, un po’ Debussy. Fu pubblicata su un disco intitolato “Swing n. 88” e vendette subito centomila copie; di lì a poco sarebbe diventato uno standard americano, il primo nato in Europa: avrebbe inciso il nome del chitarrista nato in un “vurdon”, un carrozzone zingaro, nel firmamento dei grandi della musica.
“La versione di…” fa incursione nella Storia, dunque, quella con la maiuscola: si prenda qualsiasi versione di “Nuages” suonata da Django e sarà impossibile non ritrovarsi lì, durante gli anni del razionamento, dei coprifuochi, mentre le parigine si disegnavano sulle gambe le cuciture di inesistenti calze di seta. Perché ovunque, a Parigi e in Francia, cominciò a risuonare quel motivo dolceamaro, nostalgico, facile da fischiettare, il quale sembrava ricordare ai francesi gli anni della pace e della bellezza. Senza tedeschi tra i piedi, senza guerra, senza morte.
Fu un inno di resistenza e per questo, per dovere storico di brevetto, non c’è versione migliore di quella suonata dal suo creatore: sia chiaro da subito.
Però. C’è un però. Anzi, ce ne sono almeno tre, tanto per cominciare.
Bireli Lagrene & Friends, “Live Jazz à Vienne”, 9 luglio 2002. Passerella-concerto a dir poco memorabile, disponibile anche in dvd e facilmente rinvenibile in rete – con Bireli, tra i tanti, anche il violinista Florin Niculescu, a rifare Reinhardt e Grappelli e a rifarli in modo spettacolare – vale la pena guardarlo tutto quel concerto: tre ore ben spese, e beati quei 1500 presenti…
Ad ogni modo, il sontuoso chitarrista francese, naturalmente d’origine manouche, suona la sua Nuages insieme con Sylvien Luc e David Reinhardt. L’uno è un chitarrista francese immeritatamente sottovalutato; l’altro è il nipote del grande Django, figlio di Babik, e il suo è più un cameo, anche perché quando sale sul palco non è neanche maggiorenne. La resa del brano-simbolo di Reinhardt, sostenuta dall’ottimo contrabbasso del fedelissimo Diego Imbert, è preziosa e merita più ascolti, come qualsiasi cosa abbia mai suonato in vita sua Brieli Lagrene.
Da qui in poi, se si vuole mantenere alta la quota, non si può non tirare dentro il compagno di avventure di Django: Stèphane Grappelli. L’antipode simmetrico del baffuto manouche, l’elegante musicista figlio dell’italico Ernesto Grappelli, che due anni prima che Reinhardt componesse Nuages, con la guerra alle porte, lo vide scappare da Londra per rientrare in Francia, interrompendo un tour forsennato in cui il leader della band aveva dilapidato sterline come mai prima – Django sarebbe tornato a Parigi con un autista a seguito, mentre Stèphane avrebbe sbarcato il lunario a Londra per tutta la durata delle ostilità.
Tra le tante versioni del celebre standard suonate da Grappelli, almeno due meritano menzione. Anzitutto, quella con Oscar Peterson e Joe Pass, registrata dal vivo nel 1979 ai Tivoli Gardens di Copenaghen: la performance del chitarrista italo-americano è un capolavoro di fluidità e naturalezza, il finale del violinista è un allungo virtuoso degno del suo nome, e in mezzo, dove si gioca la partita più rischiosa con l’introduzione di uno strumento estraneo alla partitura originale, non c’è calo né snaturamento, poiché il pianoforte di Oscar Peterson è il pianoforte di Oscar Peterson.
Un gradino sotto, ma altrettanto interessante, è un’altra Nuages dove Grappelli duetta con il chitarrista classico britannico Julian Bream, a conferma delle mirabili doti di improvvisazione di quest’ultimo, contrariamente a quanto solitamente si pensi dei chitarristi classici – intro e accompagnamento, in special modo, sono luminosi.
Infine, si torna a casa. Anzi, in famiglia – e non può non essere così.
Rosenberg Trio: famiglia olandese di origine sinti composta da tre cugini, Nonnie, Nous’che e Stochelo Rosenberg. Rispettivamente contrabbasso, chitarra d’accompagnamento (secondo alcuni il migliore al mondo nella ritmica gypsy) e chitarra solista. Anche in questo caso, due versioni: una matura, elegante, davanti a un pubblico vasto, nel “live in Samois” del 2003, quando il trio è già considerato uno dei massimi esempi di jazz manouche; l’altra al North Sea Jazz del 1994, in una sala d’ascolto che sa molto di club, quando Stochelo ha appena ventisei anni e impressiona per precisione, melodia, tocco e virtuosismo – quest’ultima, la “skill” fondamentale per un musicista gypsy – e se non basta Nuages, si ascolti il brano “For Sephora” eseguito nella medesima serata. Difficile scegliere tra le due versioni di quei cugini che, per volere dei loro genitori – musicisti anch’essi – hanno trascorso l’infanzia esibendosi ai più importanti raduni manouche.
Così com’è difficile trascurare i due fratelli Ferré, Elios e Boulou, entrambi chitarristi, il secondo enfant prodige che a sette anni riproduceva con fedeltà gli assoli di Charlie Parker, discendenti di un clan gitano di musicisti originari dell’Andalusia, figli di Matelo e nipoti di Baro Ferret: due membri fissi del quintetto storico di Django Reinhardt, quello dell’Hot Club – Baro è personaggio addirittura leggendario: avrebbe conteso la scena a Django fino alla fine degli anni ’40, persino dando vita a un genere nuovo, il “valse bebop”, incidendo un unico disco capolavoro prima di dedicarsi definitivamente alla criminalità. La Nuages di Boulou Ferré, dell’album “Pour Django”, conferma le straordinarie possibilità interpretative della canzone, accogliendo le ampissime sfumature contrappuntistiche del chitarrista francese, amante tanto di Bird quanto di Bach.
In definitiva, che si parli dei cugini Rosenberg o della dinastia Ferré – o Ferret, com’era in origine – poco cambia. Resta l’impronta: quell’orma sonora che per il resto del mondo è un altro modo per dire jazz ma che per loro, per Stochelo, Bireli, Boulou e il grande Django, è qualcosa che non è mai uscito dalla Zone dei carrozzoni rom, quella parte di campagna che attorniava le mura di Parigi, fuori alle porte d’Italie, de Clignancourt, de Choisy. Per loro, quel modo di suonare sarà sempre una cosa: “mare gilia”, “la nostra musica”.
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