
26 aprile 2021
La nona puntata della rubrica di Jazzit a cura di Alessandro Galano
Trovare la versione, scovare la chicca. Collegare epoche distanti tra loro, ricongiungendo sonorità e linguaggi: giocare con il jazz, insomma, provando a dare un ordine – o una bozza – al meraviglioso disordine che lo sostanzia. Ecco il senso di una rubrica per puri perdigiorno jazzofili, sempre a caccia di questa o quella rivisitazione, di questo o quel brano: piccolo treno che schizza sulle rotaie della storia e che non può non partire da lontano, in ossequio alla tradizione.
di Alessandro Galano
Ok, la migliore è la sua e non può essere altrimenti: è quasi fuori concorso. A dire del diretto interessato, anzi, e qui può esserci dibattito, sarebbe la sua migliore composizione. La scrive quando le cose si mettono meglio per lui: un anno dopo aver conosciuto Juanita Austin, detta Nita, la sua prima moglie, che sposerà nel 1955. Colei che l’avrebbe aiutato a liberarsi dall’eroina, entrando nella sua vita insieme con Syeeda, la figlia senza padre avuta qualche anno prima, e che diventerà Syeeda’s Song Flute. Si sono conosciuti durante una jam session, Juanita e John, a Philadelphia. Merito di Aisha Davis, la futura moglie di McCoy Tyner: un giro di amicizie, insomma, tra un assolo e l’altro. Juanita Austin ben presto si trasformerà in Naima per volere di John Coltrane, dando il titolo al celebre inno del grande compositore che, per paternità, rispetto e qualità, resta la versione madre da cui non si può prescindere.
Lo confermano le varie interpretazioni sopraggiunte nel tempo, d’altronde. Mai così lontane dal canovaccio originale il quale, date alla mano, segna maggio 1959: entrerà in “Giant Steps”, infatti – più che un album, una rivoluzione – e sarà la calma insospettata tra le tempeste di un artista in continuo divenire, giunto al momento di svolta della sua vita e, parimenti, della sua carriera. Tra le prime formazioni a tentare la strada di Naima c’è quella di John Handy: tema a note lunghe e atmosfere melodiche ben si prestano alla chiave cool dell’ensemble che mette insieme nel 1967 in “New View!”. L’intero album è una piccola gemma di appena tre tracce, tutte live, due di Handy e una, appunto, di Coltrane: oltre all’altosassofonista, spiccano Bobby Hutcherson al vibrafono e Pat Martino alla chitarra; l’omaggio a ‘Trane è voluttuoso, vero, appassionato, quasi un presagio, visto che l’autore dell’inno sarebbe morto tre settimane dopo la registrazione di questo live set al Village Gate di New York.
Restando in tema sax non può mancare l’apporto di Pharoah Sanders, uno che ha frequentato la musica di Coltrane praticamente lungo tutto l’arco della sua carriera e che, in “Priceless Jazz Collection” del 1987, tributa una sentitissima versione di Naima, anche migliore della più virtuosa lettura che ne dà nell’album “Africa”.
Nella succitata versione, pertanto, a dare una svolta al brano è il pianoforte di McCoy Tyner, uno che il pezzo in questione l’ha visto praticamente nascere e che, nel corso della sua sfolgorante parabola artistica, l’ha suonato tantissime volte, a cominciare da quell’”Echoes of a Friends” del 1972. Tra le più belle di McCoy, senza dubbio, l’interpretazione in versione solo datata 1978 e inserita in “The Greeting”, album etichettato da Milestone e registrato dal vivo al Great American Music Hall di San Francisco, in grado di fondere virtuosismo ed emozione, sottolineando tutta la grandezza di uno dei migliori pianisti della storia del jazz.
Ma non si può tacere, tra numerosissime chicche, anche un’esibizione live in quel di Messina nel 1987, facilmente reperibile in rete e arricchita dalla presenza del mitico Elvin Jones.
E se quella di Marc Copland è una Naima lunare – d’altronde il disco che l’accoglie si intitola “Lunar”, con un sontuoso David Liebman al sax – quella suonata nel 2001 da Michael Brecker, in trio con Herbie Hancock e Roy Hargrove al Massey Hall, dal vivo, è addirittura marziana: un live solo di sassofono che prende le vie più impervie, facendo scorrazzare il pubblico sulle montagne russe di un’interpretazione da lasciare quasi sgomenti.
Non solo pianoforte e fiati però: il capolavoro di Coltrane ha avuto anche qualche guizzo chitarristico degno di nota. Dalla versione latin samba di Ron Escheté a quella in duo realizzata da Carlos Santana (proprio lui) e John McLaughlin, proposta a Montreaux nel luglio del 2011 e in grado di dare una rilettura originale, arpeggiata e dolcissima al brano in questione – a partire del titolo stesso del concerto, “Invito all’illuminazione” – il quale riprende alcune canzoni dello sperimentalissimo “Love Devotion Surrender” del 1973, realizzato dai due chitarristi in omaggio proprio a Coltrane.
Restando in ambito cordofono non si può non citare la (forse troppo) pazzoide idea di Naima firmata dal basso elettrico di Jaco Pastorius – album “Blackbird”, con Rashid Ali alla batteria, in live set – né quella di Kenny Burrell in “Generation”, lavoro discografico assolutamente di alto profilo e in cui la rivisitazione del noto brano è quasi sussurrata.
E la voce? C’è anche la voce. Karrin Allyson nelle sue Ballads datate 2001 ne fa una questione di timbro, svolazzando sui meravigliosi tappeti degli altri interpreti del brano – John Patitucci al basso e James Williams al piano, solo per citarne un paio – e dando vita a una Naima lucente in totale “vocalese”; stessa specialità, quest’ultima, del jazz singer Mark Murphy che, già in “The Jazz Sings” del 1975, aveva aggiunto parole e suoni cantati al celeberrimo spartito.
Ma quando si parla di Naima, e di grandi lirismi, in un modo o nell’altro si torna sempre ai fiati. Tromba, stavolta. Quella del mitico Chet Baker che, nel quartetto di Hank Jones, in un live a Stoccolma del 1983, dà una delle sue ultime interpretazioni di spessore dell’ultima parte della sua parabola artistica, qualche anno prima di scrivere la parola fine alla sua vita di meteora bella e dannata del jazz, con un suono dolce, soffuso, finale.
Discorso valido anche per l’ultimo appunto di questa carrellata che, forse a sorpresa, forse no, termina in Italia, con la Naima di Massimo Urbani. L’incarnazione della nostalgia jazzofila italiana, com’è il caso di definirlo, è nel pieno della sua consapevolezza artistica quando, nel 1980, registra l’album “Dedication to Albert Ayler & John Coltrane” per la Red Records, insieme con Bonafede al piano, De Castri al basso e Pellegatti alla batteria. Un lavoro enorme – contiene anche L’Amore, Max’s Mood e altre perle autografe del suo repertorio – che lancia nel mondo del jazz un ventitreenne incendiario, capace di lasciare sul posto qualsiasi collega della sua generazione, guardando – e talora dall’alto – ai più grandi omologhi d’oltreoceano. La sua Naima è un manifesto di trascendenza e forza, di dinamismo e qualità: una roba che il buon ‘Trane avrebbe di certo apprezzato.