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Alessandro Galano
I’ll be seeing you
La versione di…

Alessandro Galano<br/>I’ll be seeing you<br/>La versione di…

8 dicembre 2020

Settima puntata della rubrica di Jazzit a cura di Alessandro Galano

Trovare la versione, scovare la chicca. Collegare epoche tra loro distanti ricongiungendo sonorità e linguaggi: giocare con il jazz, insomma, provando a dare un ordine – o una bozza – al meraviglioso disordine che lo sostanzia. Ecco il senso di una rubrica per puri perdigiorno jazzofili, sempre a caccia di questa o quella rivisitazione di questo o quel brano: piccolo treno che schizza sulle rotaie della storia e che non può non partire da lontano, in ossequio alla tradizione.

Di Alessandro Galano

“Ti vedrò in tutti i vecchi luoghi familiari che questo mio cuore abbraccia tutto il giorno / In quel piccolo caffè, il parco di fronte, la giostra dei bambini, quel castagno, il pozzo dei desideri”.

Non c’è niente da fare: la nostalgia è musa, da sempre. Nella musica e con la musica. Nell’arte e con la poesia. Prima o poi, tutti torniamo a contemplare le “vaghe stelle dell’Orsa”.

I’ll be seeing you  è questo, una “ricordanza” che comincia con quei luoghi familiari di cui sopra, semplici e struggenti al contempo: la canzone della nostalgia. Forse, per antonomasia.

Nasce ufficialmente nel 1938, a un passo dalla guerra. Un brano popolare composto da Sammy Fein con le parole di Irving Kahal: roba per Broadway, certo, vaudeville, ma di mirabile fattura – qualcuno pensa di aver visto l’ultimo movimento della terza sinfonia di Mahler nei primi righi dello standard: niente male per uno come Fein che, almeno all’inizio della sua carriera, il pianoforte lo suonava a orecchio. Ad ogni modo, è una di quelle musiche che segnano il passo di un’epoca e che valgono quanto un saggio storico: sarà il brano di riferimento per molti soldati statunitensi inviati in Europa durante il secondo conflitto mondiale e fu, senza ombra di dubbio, il capolavoro di Kahal, il paroliere ebreo che morì per cause sconosciute appena quattro anni dopo, a soli trentotto anni.

Bing Crosby, Frank Sinatra, Peggy Lee. Glenn Miller e Tony Bennett. Orchestre, soprattutto. Molte, moltissime le interpretazioni di un pezzo che sembra essere già nato come uno standard super classico. Persino Mina ne dà una versione niente male nel 2012, tra le migliori esecuzioni dell’album “12 American Songbook”, impreziosita dal pianoforte di Danilo Rea e da una sezione archi impeccabile diretta da Leandro Piccioni. Una voce inconfondibile la sua, come quella di colei che forse, più di tutti e tutte, ha reso indimenticabile questa canzone: Billie Holiday.

La sua registrazione risale al 1944, epoca post “Strange fruit” si potrebbe dire, quando per tutti era già Lady Day, l’eroina afroamericana che denunciava il linciaggio a sfondo razzista contenuto nel testo di quella sontuosa poesia scritta da uno sconosciuto insegnante ebreo – e che avrebbe continuato a cantare praticamente fino alla morte. La Commodore l’aveva presa sotto di sé e Billie aveva ormai lasciato la band del bianco Artie Show – quando per suonare era costretta a entrare dalle cucine dei locali – dividendosi tra l’orchestra di Eddie Heywood e quella di Teddy Wilson. La sua versione di I’ll be seeing you” resta la più bella di tutte: una melodia che sembra cucita su misura per lei, fatta a posta per essere indossata dalla sua voce, così dolce, così sofferta. Così drammaticamente eterna.

 

Ma quest’ode alla nostalgia ha avuto anche interpretazioni unicamente strumentali. Poche ma buone, si direbbe, come quella di Sonny Stitt inserita nell’album “The Last Sessions” del 1984: una versione elegante, pulita, senza eccessi. Alla Stitt, insomma.

Oppure, come quella eseguita da Brad Mehldau nell’album registrato dal vivo nel 1999 nello storico Village Vanguard di New York: “Art of the Trio 4: Back at the Vanguard”, pubblicato dalla Warner. Un lavoro che, nella sua totalità, è considerato tra i migliori del celebre pianista, punto di svolta della sua carriera nel quale, com’è stato scritto, si smarca definitivamente dalle influenze dei grandi – Jarrett, su tutti –, lasciando andare l’istinto e divertendosi entro esecuzioni celeberrime – si ascoltino a tal proposito “All The Things You Are” e la mitica “Solar” di Davis, rispettivamente 14 e 10 minuti di live set di altissimo livello.

Dal sassofono al piano, dunque, ma c’è anche la chitarra e qui il salto è contemporaneo: Julian Lage, giovane chitarrista e compositore californiano, ex bimbo prodigio ormai tra gli artisti più autentici della scena americana, “frequentatore” di Grammy con lavori che miscelano senza stucco mondo classico, contemporary jazz e vaghe sfumature rock. La sua interpretazione è una registrazione dal vivo in cui mette in scena tutta la dosata qualità di cui è capace, avvenuta al Blue Whale di Los Angeles il 6 aprile 2016.

Restando nel contemporaneo chiudiamo con due chicche, nuovamente vocali – è inevitabile. La prima è ancora di marca tricolore e merita una sottolineatura tutt’altro che scontata, non solo per il brano in questione ma per l’intero album dedicato alla regina triste di Baltimora: “Dear Billie” di Joe Barbieri, pubblicato nel maggio 2019, è un lavoro luminoso, arricchito dalla presenza di alcuni top player del jazz italiano – Gabriele Mirabassi al clarinetto, Luca Bulgarelli al contrabbasso e Pietro Lussu al piano.

La seconda chicca è ancora più recente, addirittura maggio 2020 e porta la firma di Norah Jones: voce e pianoforte dal vivo, direttamente da casa sua, in uno dei tanti live in streaming realizzati per allietare le giornate degli appassionati di musica durante il primo lockdown. Una session domestica di grande intimità, non a caso dedicata a sua madre.

In ultimissima istanza però, c’è Philip Roth. “Nemesi”. Un tributo al brano che non va ascoltato, ma che ricorre tra le pagine di uno dei migliori romanzi dello scrittore americano, colonna sonora di una vicenda forte, maledettamente contemporanea nonostante sia ambientata negli anni ’40 del secolo scorso. È la storia del giovane Bucky Cantor e dell’epidemia di polio che scoppia nel quartiere ebraico di Weequahic, nella cittadina di Newark, dilagando nel campo giochi gestito dal protagonista. Qualcuno dà la colpa agli italiani dell’East Side High, qualcun altro agli hot dog di Syd, ma intanto i casi aumentano e I’ll be seeing you è la canzone di quell’estate così afosa, così strana. La preferita di Marcia, la donna amata da Bucky e che, “seppur tenendola stretta”, quell’ultimo giorno non bacerà sulle labbra.

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