
7 novembre 2021
La decima puntata della rubrica di Jazzit a cura di Alessandro Galano
Trovare la versione, scovare la chicca. Collegare epoche distanti tra loro, ricongiungendo sonorità e linguaggi: giocare con il jazz, insomma, provando a dare un ordine – o una bozza – al meraviglioso disordine che lo sostanzia. Ecco il senso di una rubrica per puri perdigiorno jazzofili, sempre a caccia di questa o quella rivisitazione, di questo o quel brano: piccolo treno che schizza sulle rotaie della storia e che non può non partire da lontano, in ossequio alla tradizione.
di Alessandro Galano
Raymond Stanley Noble, detto Ray, era un musicista che a ventuno anni già faceva l’arrangiatore in BBC. Per prima cosa compositore, finì la carriera da comico, speaker radiofonico e attore cinematografico, forse perdendo qualche treno importante durante la sua carriera; forse, anzi, prendendo al volo quello che per lui fosse più redditizio, e con buona pace della musica.
Londinese doc, tanto da suonare per “i ragazzi che tornavano dalla lezione di equitazione ad Hyde Park”, come raccontò, si ritrovò dall’altra parte dell’Atlantico a scrivere un’opera di cinque movimenti dedicata agli indiani d’America.
Uno di questi, “Cherokee”, nel 1938, raccontava di una “coraggiosa guerriera indiana” che avrebbe spezzato il cuore dell’innamorato, lasciandosi poi suonare da intere generazioni di jazzisti e diventando uno degli standard più famosi di sempre.
Duke Ellington ne fece uno dei suoi cavalli di battaglia infatti, stessa cosa Count Basie, mentre Bird la suonò così tante volte da odiarla prima e da utilizzarla poi come base della sua Ko-Ko, una variazione sul tema con medesima struttura che sarebbe diventata altrettanto celebre.
D’altronde, Cherokee è da sempre un termine di confronto, anzitutto dal punto di vista canoro: Sarah Vaughan è la prima cantante donna che nel 1955 la intona, ottenendo il permesso di trasformare “la fanciulla” del testo in un “brave indian warrior”, un coraggioso guerriero indiano, in una versione cristallina impreziosita dal sassofono di Cannonball Adderley, peraltro replicata il 7 giugno del 1958 in una famosa diretta televisiva.
Restando in tema vocale, è interessante anche la versione che nell’album “Dynamic”, sempre nel 1958, darà la cantante Dakota Staton, una delle stelle di Homewood, quartiere nero di Pittsburgh, ed è interessante soprattutto rispolverare questa meteora del jazz, tanto promettente all’inizio della sua parabola, quanto deludente alla fine, che avrebbe dovuto fare blues, solo blues, sempre blues.
Abbottonata e zompettante, irrimediabilmente “bianca”, ma non per questo priva di efficacia, è invece l’interpretazione del sassofonista e direttore d’orchestra Charlie Barnet: incisa con la sua big orchestra già nel 1939 (secondo molti è sua la versione standard, quella definitiva), il nipote del vicepresidente della New York Central Railroad la suonerà per un ventennio, prima di ritirarsi dalla musica e godersi la cospicua eredità del nonno, probabilmente annoiandosi un po’.
Dai colori dell’orchestra ai suoni ovattati di “Slide” Hampton, trombonista eccelso – a vent’anni suonava alla Carnegie Hall – che in “Spirit of the Horn” inscena una Cherokee guizzante, gustosa almeno quanto quella di Clifford Brown, incisa però circa mezzo secolo prima in un album storico, “A Study of Brown” (1955), ospite del quintetto dell’insormontabile Max Roach: all’intro da atmosfera “mingusiana” fa da contraltare la marcia del grandioso batterista di Newland, giusto sostegno per uno degli assoli di tromba più belli che questo standard possa vantare.
E il piano? C’è, naturalmente. Come c’è l’organo, quello di Jimmy Smith, ad esempio, uno che questo “movimento indiano” l’ha suonato svariate volte, in svariati album e in altrettanti svariatissimi concerti dal vivo, ogni volta dando un “cut” diverso, alla sua maniera. Tuttavia, se si vuol prendere un’incisione madre allora bisogna andare a quella di “Confirmation”, datata 1962: venticinque minuti di Cherokee in cui compaiono molti interpreti di quel sontuoso lavoro discografico, dalla batteria di Art Blakey alla chitarra di Kenny Burrell, fino ai fiati di Lee Morgan, George Coleman e Curtis Fuller (tromba, sax alto e trombone).
Per un’esecuzione in “solo”, invece, c’è il virtuoso per eccellenza, secondo alcuni il più grande pianista jazz di sempre (non è un caso che Rachmaninov fosse un suo fan e che Fats Waller lo paragonasse a Dio): Art Tatum in piano solo suona Cherokee come nessun altro al mondo, giocando con ragtime, swing e blues come un bambino in un luna-park gigantesco.
Una delle versioni più eleganti però, sempre in solo, va detto, la dà anche l’intramontabile Barry Harris in un live datato 1990, dal Mayback Recital Hall di Berkeley, California.
Restando in tema di eleganza, ma aumentando i giri e avvicinandoci ai giorni nostri, tra i tantissimi che hanno interpretato Cherokee, uno spazio a parte lo meritano due dei più importanti musicisti del momento: il contrabbassista Christian McBride e il sassofonista Kamasi Washington.
In “Live At The Village Vanguard”, concerto dal vivo registrato nel 2015, il primo propone una versione di otto minuti assolutamente imperdibile, dando l’ennesima prova del suo talento con un assolo ripidissimo, una vertigine di note che il pubblico non manca di apprezzare.
Quanto al secondo, poi, dobbiamo tornare nel novero delle voci femminili perché gran parte del merito di questa interpretazione va alla cantante Patrice Quinn: deliziosa la sua andatura soul, tanto nelle registrazioni quanto nei live; tra questi, mirabile quello a San Diego del 2016, con la consueta baraonda di fiati e strumenti a percussione, per un totale di oltre tredici minuti di live set.
Infine, due chicche italiane: una location e un fenomeno. In “Art Farmer & Lee Konitz Quintet – Live in Genoa 1981”, registrato nella Villa Imperiale del capoluogo ligure, il brano in questione è aperto da una lunga parentesi alla batteria, coronata dall’intreccio di fiati messo in scena dai due grandissimi interpreti, l’uno al flicorno, l’altro al sax alto: da mettersi comodi in poltrona, allungare le gambe, chiudere gli occhi.
Quanto al fenomeno, invece, non può che essere Massimo Urbani: la sua migliore Cherokee risale a un concerto dal vivo nella Chieti del 1979, con Urbani al sax alto, Franco D’Andrea al pianoforte, Attilio Zanchi al contrabbasso e Giampiero Prina alla batteria, e non è una mera interpretazione, non solo. Tra richiami, citazioni, digressioni sonore e deviazioni varie, si tratta di un seminario di jazz applicato, a metronomo folle, opulento e scintillante, come solo era in grado di fare questo enorme rimpianto della musica italiana e beati, beati davvero gli invitati alla cena del signor Massimo Urbani in quel di Chieti nel 1979, beati loro: non capita tutti i giorni di vedere la reincarnazione di Bird in un ventiduenne romano di Monte Mario.