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Alessandro Galano
Impressions
La versione di…

Alessandro Galano<br/>Impressions<br/>La versione di…

17 giugno 2020

Quarta puntata della nuova rubrica di Jazzit a cura di Alessandro Galano

Trovare la versione, scovare la chicca. Collegare epoche tra loro distanti ricongiungendo sonorità e linguaggi: giocare con il jazz, insomma, provando a dare un ordine – o una bozza – al meraviglioso disordine che lo sostanzia. Ecco il senso di una rubrica per puri perdigiorno jazzofili, sempre a caccia di questa o quella rivisitazione di questo o quel brano: piccolo treno che schizza sulle rotaie della storia e che non può non partire da lontano, in ossequio alla tradizione.

Di Alessandro Galano

“Ecco come suono io: parto da un punto e mi spingo il più lontano possibile. Sperando ovviamente di non perdermi per strada. Dico sperando perché quello che mi interessa, soprattutto, è scoprire percorsi che non avrei mai creduto possibili”.

A proposito di Impressions: John Coltrane, 1961. Tradotto in musica: quindici minuti di scoperta di percorsi che il compositore non avrebbe mai creduto possibili. E che, aggiungiamo, qualche anno dopo, nel 1964, avrebbero avuto quale naturale approdo quel “concept album” – per dirla come i rocker – che sarebbe stato “A Love Supreme”: il testamento spirituale di ‘Trane – “la mia fede, il mio sapere, la mia essenza”.

“La versione di…” resta su Impressions però, standard anomalo, punto di passaggio, anzi ponte vero e proprio tra due periodi che rappresentano a 360° il signor John William Coltrane di Hamlet, North Carolina. Due facce complementari ed essenziali non solo della sua carriera ma della storia lata della musica: quella del modale a tutti i costi – le “strisce” – per cui è arcinoto il nostro eroe e quella di A Love Supreme, appunto, la destinazione finale. Si prenda allora una qualunque versione di quel 1961, meglio ancora quella in studio con ‘Trane al sassofono – sarebbe diventato un tema ricorrente del suo tenorismo –, McCoy Tyner al piano, Jimmy Garrison al basso ed Elvin Jones alla batteria. E si noti esattamente quanto dichiarato nella coeva intervista sopra riportata dall’autore del brano: l’intera esecuzione – temi, struttura e costruzioni varie – parte da un punto preciso e mira a spingersi lontano, verso un altro punto che è già, in nuce, quell’architettura perfetta e spirituale che tre anni dopo sarà “A Love Supreme”.

L’apollineo Coltrane, ricalcando la divisione nietzschiana tra arte come caos e arte come negazione del caos, è già alla ricerca del proprio corrispettivo dionisiaco, come testimoniano i live set datati ’62, ’63 e ‘64, vere trance sonore da un’ora a brano che i più fortunati hanno potuto ascoltare al Vanguard di New York oppure al Workshop di Boston – sarà lo stesso Elvin Jones a confermare la tesi secondo cui in quegli anni il leader della band avesse “un controllo soprannaturale” su ciò che suonava.

Quella, dunque, la partitura sacra. Ma non la sola degna di nota.

Per una strana alchimia di ispirazioni, infatti, Impressions è diventata da subito un pezzo per chitarre: una deviazione felice che si deve a un certo Wes Montgomery. La sua interpretazione dal vivo, nella terra natia di Django Reinhardt (Belgio), datata 1965, resta una sorta di iniziazione chitarristica di quello che diventerà uno degli standard più suonati di sempre, tanto da assurgere a vero e proprio classico nel suo ambito. Non lo stesso si può dire di un’altra performance sempre a firma Wes, quando nel novembre del medesimo anno, in diretta, in una trasmissione radiofonica, con il Wynton Kelly Trio portò il tempo del brano all’estremo e ne smontò i cardini con una scarica di accordi da lasciare sgomenti – la registrazione non è illibata ma, diamine, eccome se va ascoltata!

Altra chitarra, altro genio. Stavolta in versione studio: Pat Martino la suona per la prima volta nell’album “Consciousness” del 1975 – un lavoro atipico e fresco che contiene anche una versione di Both Sides Now di Joni Mitchell – e la riprende in “Cream”, una raccolta del 1997. La sua idea di Impressions deve molto a quella di Wes, va detto, ma è come se ne fuoriuscisse ripulito – il delitto perfetto – giocando con una risoluzione sonora che solo il chitarrista italo-americano è in grado di sinterizzare, sempre felicemente in bilico tra pulizia e fraseggio hot – e in tal senso, si ascolti anche l’interpretazione della mirabolante Blue Bossa.

Per tornare a fiati degni delle “impressioni” coltraniane allora, bisogna pescare dal vivo e affidarsi non a uno, ma a una squadra. È quella che nel 1997 si diverte al Newport Jazz Festival in occasione del “Tenor Supreme Coltrane Tribute” e che vanta una hall star a dir poco strabiliante: Michael Brecker, Dave Liebman, George Garzone e Joshua Redman sono i sassofoni tenori – elencati in ordine di assolo – di un ensemble che si completa con nomi del calibro di Geoffrey Keezer, Dave Holland, Chris McBride e Jack Dejohnette. Tutti insieme appassionatamente a suonare Coltrane, Impressions, per 26 minuti, con tema in sincrono finale e assolo conclusivo di Dejohnette – ce n’è per tutti i gusti, insomma.

Cambiano gli interpreti tranne uno, ma siamo sempre dal vivo, stavolta in alta Germania, al “Jazz Baltica” di Salzau, nel 2003: una versione degna di nota che vede in avanscoperta sempre il nostro Brecker al tenore, qui in compagnia di due solisti sui generis, Pat Metheny ed Esbjörn Svensson. A iniziare la fortunata session però – per la natura degli interpreti più tendente al fusion – è il trombonista e direttore della kermesse Nils Landgren, con un solo degnissimo che apre la strada alle esternazioni di Brecker, quella sera a dir poco in stato di grazia, per poi schiudersi in qualcosa di onirico come solo la musica di Svensson sa produrre, che lo si ami o no. Il pianoforte del compositore svedese trasforma Impressions in altro da sé, come si direbbe in psichiatria, lasciando campo libero alla chitarra finale di Metheny che, da par suo, si adopera in uno di quegli straniamenti su cui finisci per interrogarti a notte fonda – era sacrilegio o liturgia?

Chitarre, dunque. Squadre di tenori impazziti e geni jazz-fusion prestati alla musica di ‘Trane, muovendoci tra epoche, stili e continenti. E non deve stupire, poiché ci vuole per forza qualcosa di speciale se si vuole rivisitare e raccontare una traccia indelebile di uno dei più grandi artisti di sempre: Impressions è solo un afflato, d’altronde; un ponte tra due mondi che troveranno pace e compimento soltanto a cose fatte, qualche anno dopo, in quel 1967 che segnerà la dipartita di una delle ultime voci eterne del jazz.

Resta una domanda universale e felicemente irrisolta che, come una nube rosea al tramonto, si staglia dietro la nostra Impressions, ed è questa: da dove viene la musica di John Coltrane?

Nel caso in ispecie, molti sanno che la struttura è quella di So What (AABA) di Miles Davis (1958), ma sulla melodia c’è discordanza, talora confusione. E qui, rispondendo alla domanda, due indizi fanno una prova e ci consegnano la cifra del nostro ‘Trane: il primo è la “Pavanne” del Maestro Morton Gould, registrazione newyorchese per la Columbia datata 1942; il secondo è la “Pavane pour une Infante Défunte” di Ravel, composizione del 1910 scritta solo per pianoforte, poi musicata anch’essa per orchestra. Si ascoltino con attenzione il secondo tema della prima sinfonia citata e la parte finale della seconda, quella eseguita dal grande compositore francese.

Dicono niente?