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Alessandro Galano e Samuele Romano
Giordano In Jazz 2018
Reportage

Alessandro Galano e Samuele Romano</br>Giordano In Jazz 2018</br>Reportage
Photo Credit To Samuele Romano

25 luglio 2018

My name is Calypso and I have lived alone, I live on an island and I waken to the dawn”. È il primo brano di un bis di due, ultimo atto della serata. Calipso, la ninfa innamorata di Ulisse e cantata da Omero, dea del mare invisa a Zeus e condannata ad amare naufraghi che l’abbandoneranno, intona il suo canto dalla riva, mentre vede ripartire l’uomo che ha salvato dalle acque e amato così tanto – “He sails away, after one last night”. Quanto basta per presentare un’artista che ha fatto della poesia, del folk d’autore, dell’impegno, i punti cardinali di una carriera che ha spiccato il volo nel cosiddetto “decennio del disimpegno”: da quel 1987 in cui incise “Calypso” sono passati più di trent’anni ma Suzanne Vega è sempre lei, talento canoro e scrittorio intonso alle scalfitture del tempo.

Di Alessandro Galano; fotografie di Samuele Romano.

Dalle atmosfere sognanti della famosa folk-singer all’energia di Stanley Clarke, quattro volte Grammy e pezzo pregiato del jazz e del fusion internazionale: è il mini-cartellone del Giordano in Jazz – Summer Edition 2018, organizzato dall’Assessorato alla Cultura del comune di Foggia e dal Moody Jazz Café, cominciato venerdì 13 luglio con l’interessante “fuoriprogramma” stilistico rappresentato dalla famosa cantautrice, prima del rientro nei “ranghi” del venerdì successivo, affidato al grande bassista e contrabbassista statunitense.

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Con la Vega, in Piazza Battisti, un altro grande maestro del proprio strumento, il chitarrista Gerry Leonard – ultimo compagno di viaggio di David Bowie, per i pochi che non ne avessero contezza. Un live set intimo, voce-e-chitarra che, a essere onesti, avrebbe meritato una cornice più ovattata, magari quello stesso Teatro Giordano posto a sfondo della location, animato da uno spettacolo di luci e immagini che ha contribuito ad aumentare il rimpianto dei tanti che avrebbero voluto un silenzio quasi religioso per godere appieno delle sfumature sonore dei due interpreti sul palco.

Già, perché alle soglie dei sessanta, Suzanne è ancora Suzanne: la voce, quel timbro alare, leggero e malinconico, talora difficile da separare dal falsetto dolcissimo che l’ha resa celebre ancora ventenne, sembra quasi essersi affinato col tempo, mantenendo una pulizia che ha lasciato i molti fan – soprattutto i nati negli anni ’60 e ’70, ossia la maggioranza del pubblico – a dir poco sorpresi. A sostenerla, qualche volta imbracciando la dodici-corde e qualche altra preferendo la chitarra elettrica (in affiancamento all’acustica folk della cantante nata a Santa Monica), la sapienza e l’essenzialità di Leonard: al servizio, né più né meno, della Vega. Il chitarrista irlandese, infatti, si è lasciato andare in poche occasioni, momenti scelti come quel “Left of Center” datato ’86 e cantato a metà concerto, sul cui assolo elettrico Suzanne ha prodotto un cortocircuito temporale, danzando con passi di piuma sulle nuvole del tempo e rievocando videoclip e vecchi filmati live che hanno scritto un pezzo di storia della musica.

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In scaletta, praticamente, il meglio o quasi della sua carriera artistica, compreso quel “Tom’s diner” rispolverato in versione remix – idea clandestina di due sconosciuti dj di Londra – che ha fatto conoscere la voce della Vega anche a chi non ha mai avuto nulla a che fare con il cantautorato folk, men che meno con un certo soft-pop di qualità. Un motivetto impossibile da dimenticare, amatissimo tra gli anni ’80 e ’90, persino ballato nelle discoteche ma che, a dispetto di ogni disimpegno dance, racconta più di altri lo stile di una folk-singer cresciuta artisticamente nella New York di Lou Reed, mito e mente dei Velvet Underground che la stessa Suzanne, giovanissima, ha ammirato, cantato e conosciuto dal vivo. Difficile, infatti, non ritrovare nel brano in questione echi dell’arcinota “Take A Walk On The Wild Side”: entrambe le voci narranti osservano il mondo dalla finestra, chi da un caffè e chi dalla propria abitazione, sorprendendosi della fauna umana che passa loro davanti, con quel “doo, doo-doo” che è molto più che una suggestione – come dire: il “lato selvaggio della vita”, vent’anni dopo.

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C’è molto di “Solitude Standing”, album top della Vega – anche se manca nella set-list la canzone omonima del disco, peccato – ma c’è anche tanto del primo lavoro discografico della cantautrice, quello pubblicato nel 1985 e che porta il suo stesso nome: se “Marlene On The Wall” immalinconisce il pubblico che ha tradotto i versi di un abbandono amoroso in tempi ormai lontani – “Il suo sorriso beffardo dice tutto” – la canzone “Luka”, anch’essa famosissima e intonata sul finire del concerto, ricorda a fan e appassionati che Suzanne ha anche assolto ai principali compiti di ogni voce folk, cantando l’impegno e la denuncia sociale – in questo caso quella domestica perpetrata ai danni di un bambino, e questo sempre durante il cosiddetto decennio del disimpegno.

Prima del bis nel quale è diventata Calipso – oceanina, ninfa, nereide – la Vega ha raccontato altre storie in musica, alla sua maniera, conversando con il pubblico tra un brano e l’altro e motivando le scelte, dando cenni della loro genesi: “In Liverpool” – ha svelato, poco prima di intonare a canzone datata ’92 – è la storia di un ragazzo conosciuto in quella città e che, nel celebre testo, è narrato nell’atto di buttarsi da una torre, mentre fa suonare un campanile, impazzito “come un gobbo in estasi”. Storie, in definitiva. “Brividi sonori” resi tali da una purezza canora ancora illibata, a risalire la schiena di chi ha vissuto quella voce quando era il momento di farlo, ma anche di chi l’ha ascoltata e ammirata successivamente, apripista per diverse “stelle” a venire che tanto devono, musicalmente e stilisticamente, a questa straordinaria artista.

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Un fuoriprogramma tutt’altro che jazz, come detto, prima del secondo concerto – questo sì, molto, molto in tema con lo spirito della manifestazione – affidato ad un giovanotto di 67 anni armato di basso e contrabbasso e in grado, con la sua straordinaria energia, di far saltare la folla pugliese a ritmo di funk e jazz-fusion. È l’epilogo della serata di venerdì 20 luglio quando, in occasione del bis chiamato a gran voce dal pubblico pugliese – attento ed entusiasta, oltre che agevolato dagli accorgimenti logistici operati dagli organizzatori – Stanley Clarke ha letteralmente invitato tutti ad andare sotto al palcoscenico, tra battimani e cori, in barba a qualsiasi osservanza in materia di ordine pubblico.

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Una sapienza artistica, quella di Clarke, evidente anche nella scelta della formazione che lo sta accompagnando in questo lunghissimo tour per il mondo e che, in Italia, è cominciato proprio dal capoluogo dauno – tappa d’apertura del giro, prima di Sorrento, San Giovanni Valdarno e del ben noto Fano Jazz. A dare sostegno e impeto al famoso front-man, infatti, altri quattro musicisti di alto livello, nessuno dei quali oltre i quarant’anni e tutti pienamente consapevoli della propria qualità, emersa in più di un’occasione nei forsennati fraseggi lanciati dallo stesso Stanley, il più divertito di tutti sul palcoscenico di Piazza Battisti.

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Armonia d’insieme, insomma, e ampio spazio ad ognuno dei presenti, anche in base all’ispirazione del momento: il lunghissimo “solo” privo di accompagnamento di Salar Nadar, percussionista di origini afghane, figlio di profughi fuggiti in Germania prima e negli States dopo, è il manifesto di questo modo di intendere la musica e, in modo particolare, la musica dal vivo. Nella sua performance, a inizio concerto, ogni singola nota è data da ogni singolo dito che batte sulla pelle e il pubblico, durante l’escalation ritmico, resta letteralmente con il fiato sospeso, quasi che il musicista stesse camminando su un filo di nylon sospeso sopra uno strapiombo. A fare il paio dei talenti d’Oriente, il pianista georgiano Beka Gochiashvili: impostazione classica, la sua, tocco argenteo e un modo di sparigliare le carte assolutamente personale, dosatissimo, con incursioni al limite della genialità, come in occasione del brano “Song for John”, dedicato a Coltrane – “Ma anche a Miles e Charlie”, come fa sapere Clarke nel presentarlo – in cui il pianoforte entra con la naturalezza dei grandissimi. Sugli stessi standard anche il giovanissimo batterista Michael “Mike” Mitchell: vent’anni di talento e sentirli tutti attraverso una forza dirompente, talora quasi rock e che tanto sembra divertire il bassista e contrabbassista alla guida della band, assolutamente a suo agio con quello che può essere definito il suo pupillo. Già, perché a rivelare al pubblico il giovane drummer del Bronx è stato proprio Stanley Clarke, scovandolo come nelle migliori favole web nientemeno che su Youtube e portandoselo dietro, dopo un paio di jam in studio, nelle varie esibizioni per il mondo – uno dei pochi casi, verrebbe da dire non senza ironia, in cui uno “youtuber” dimostra di saper fare “qualcosa”. Dio li fa e Stanley li mette insieme, insomma, se a completare il cerchio magico, alle tastiere e al synth, c’è il californiano Caleb Sean McCampbell: musicista attento ai tappeti sonori, forse non sempre fondamentale ma capace di rievocare in alcune occasioni gli sfondi fusion dei primi anni ’70, mutuandoli in chiave più moderna.

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Quanto al giovanotto Stanley, paradossalmente – o forse no, affatto – c’è poco da dire: per lui parla la storia, innanzitutto, ma anche uno stato di forma e una versatilità che sembrano aver seguito la sorte dei vini pregiati. La sua performance è quasi tutta al contrabbasso, pizzicato o schiaffeggiato a seconda dei momenti, con una sicurezza e una riconoscibilità che in pochissimi, anche appartenenti alla sua stessa scuola, hanno mantenuto nel corso degli anni. Storia, dunque, e qualità che, in una parola, può tradursi in “Spain”. Sintesi più che esempio di un concetto, brano suonato a metà serata ma datato 1972, parte di “Light as a Feather”, l’album che ha fulminato la storia del jazz deviandone il corso in direzione del cosiddetto genere “fusion” e realizzato, a suo tempo, da una band denominata Return to Forever, capeggiata da un certo Chick Corea – anche lui passato dal Giordano in Jazz neanche un anno fa. Insieme con il pianista e tastierista di origini italiane, c’era anche un talentuoso bassista poco più che ventenne che, da lì in poi, sarebbe diventato uno dei protagonisti della scena jazz-fusion di sempre: nel suo modo di suonare quel brano quasi leggendario, muovendosi tra un intro con l’arco e scapestrati andirivieni in compagnia dei suoi sodali, Stanley Clarke racconta una storia in prima persona, la voce narrante di chi sa affabulare, spronare e spingere sotto il palco qualsiasi tipo di pubblico.

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