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“A tu per tu”: un personale omaggio al grande jazz italiano. Intervista a Filippo Bianchini

“A tu per tu”: un personale omaggio al grande jazz italiano. Intervista a Filippo Bianchini

22 maggio 2023

Intervistiamo il sassofonista Filippo Bianchini, nativo di Orvieto (TR) e cresciuto tra Roma e l’Umbria, che ha vissuto stabilmente per più di undici anni tra l’Olanda e Bruxelles. Filippo ci racconta “A tu per tu”, il suo ultimo lavoro discografico, registrato allo Studio La Strada di Roma, e prodotto dalla storica label belga September della Hans Kusters Music. Il disco, realizzato in duo con il talentuoso pianista Luca Mannutza, si avvale anche della collaborazione di Roberto Gatto alla batteria, Enrico Braccio alla chitarra e Daniele Tittarelli al sax alto.

a cura di Andrea Parente

Buongiorno Filippo e bentrovato su Jazzit. Gli ultimi tre anni non sono stati tempi facili per tutti i protagonisti del settore dello spettacolo. Come hai gestito il tuo tempo? Cosa hai imparato da questa difficile situazione?
Il periodo di fermo, per quanto mi riguarda, ha rafforzato la mia idea sull’importanza dello stare assieme. Anche musicalmente parlando, abbiamo capito quanto sia necessario vedersi e suonare insieme. E credo che ora anche il pubblico, fruitore dei concerti, sia più attento e desideroso di assistere ai live e vivere la musica. L’esperienza di andare a seguire un concerto non può essere comparata allo streaming, come, a mio avviso, la maggior parte delle attività.

Passiamo al presente. Cosa ci racconti in “A tu per tu”, il tuo ultimo lavoro discografico, pubblicato nel settembre del 2022 dall’etichetta discografica September?
Proprio nel periodo più difficile del fermo dovuto alla pandemia, Hans Kuster, il patron della September Music, con la quale avevo già inciso tre dischi a mio nome in precedenza, mi ha proposto l’idea di realizzare un disco in duo, sassofono e pianoforte, suggerendomi di fare un omaggio ai musicisti e compositori italiani. Il Sig. Kusters è una persona d’altri tempi, un vero amante della musica, un produttore che ama sostenerla in ogni modo, olandese di origine, amante dell’Italia e della musica che si fa nella nostra penisola, segno di quanto quest’ultima e i musicisti italiani siano spesso apprezzati all’estero. Inoltre, Hans mi ha sempre lasciato libera scelta sul repertorio e sullo stile su cui improntare i miei dischi. Anche in questo, mi ha solo dato un incipit iniziale, lasciando a me la scelta dei brani, del mood e della maniera in cui suonarli. E questa non è una cosa scontata quando si parla di produzioni. Ho quindi iniziato a pensare a una serie di musicisti che mi interessavano e dei quali ammiro lo stile improvvisativo e compositivo. Ovviamente non è stato possibile inserirli tutti, altrimenti ce ne sarebbero voluti almeno altri quattro di dischi!

Cosa ti ha motivato nello scegliere il pianista Luca Mannutza come collaboratore del disco?
Il duo è un organico particolare. Per un solista è difficile, perché si è più “scoperti” rispetto a un organico più grande, ci si sente nudi! Inoltre, mi piacevano alcuni brani che nella versione originale erano stati suonati da organici come il quartetto o il quintetto e avevo quindi delle perplessità sulla fattibilità e la resa dell’esecuzione in duo. Luca è un musicista che conoscevo per fama da tanto tempo. Negli ultimi anni ho avuto modo e possibilità di conoscerlo meglio e di suonarci assieme. Specialmente durante la pandemia abbiamo partecipato a parecchie sessions, suonando molto insieme (per fortuna, perché è stato l’unico modo per non impazzire completamento per il fermo e la situazione generale!). Luca è un musicista fantastico, con uno stile solido e poliedrico. Gli ho parlato dell’idea e lui è stato entusiasta di parteciparvi e lavorarci assieme, supportando e rendendo concretamente possibile quello che avevo in mente.

Nel disco sono presenti – come special guests – il batterista Roberto Gatto, il chitarrista Enrico Braccio e il sassofonista Daniele Tittarelli. Ci racconti come li hai coinvolti nel disco?
Il repertorio del disco presenta sia brani originali miei e di Luca, sia brani di altri musicisti e compositori. Mi piaceva l’idea di coinvolgere alcuni dei compositori dei brani, che sono anche musicisti che noi stimiamo molto, nella registrazione dei pezzi. Ognuno di loro è così presente solo nella propria composizione. Ci siamo quindi ritrovati a duettare, anzi a “trieggiare”, con Roberto, poi con Daniele e infine con Enrico, ognuno in brani differenti.

La formazione del disco è quindi un duo, arricchito da tre special guests. Cosa ha significato questo a livello timbrico, espressivo e di arrangiamento?
Ognuno dei guests ha arricchito l’esecuzione, creando anche un organico poco ortodosso, secondo i canoni comuni, come due sax e piano, o batteria sax e piano. Questo ha permesso di avere un suono particolare e non scontato, che trovo interessante.

LIjora è il singolo che apre il disco, uscito insieme a un grazioso videoclip. Ci motivi tale scelta?
LIjora è un brano di Luca, che ho amato sin dal primo ascolto e che ho voluto mettere come traccia di apertura dell’album. È una composizione molto lirica ma non scontata, anzi, piuttosto complessa… ma che possiede una grande cantabilità, tipica delle songs. Il figlio di un mio caro amico è un promettente disegnatore, oltre che sassofonista, si chiama Alberto Santoro e ha dodici anni. Ho visto i progressi che aveva fatto nel disegno e così gli ho chiesto di realizzare un videoclip a cartone animato su questo brano. È stato bravissimo. Vedetelo voi stessi, è pubblicato su YouTube! Tra l’altro a breve uscirà un altro video di un brano dell’album, Childhood Lost. Mi piace molto l’idea di abbinare le immagini alla musica; da ragazzino guardavo il canale MTV, con i videoclip che trasmetteva, e ho un forte ricordo del connubio tra la musica e le immagini.

I tuoi precedenti dischi – “Sound of Beauty” (2018), “Le Voyage” (2017) e “Disorder at the Border” (2015) – li hai registrati con organici più grandi, come il quartetto o il quintetto. Quale formazione prediligi? Mi riferisco, anche, alle esecuzioni live.
Non ho una preferenza assoluta. Ogni situazione permette di esprimersi in un certo modo. Adoro il quartetto classico con ritmica e pianoforte, anche perché molti dei dischi che amo sono stati realizzati con questo organico. Ma grazie soprattutto a Sonny Rollins, adoro anche il trio pianoless. Ultimamente faccio parte di una bellissima realtà musicale a Roma, la MEJO Orchestra, che è una big band di circa venti elementi ed è bellissimo suonarci. Il suono di un organico così capiente è pazzesco (pensa a Duke Ellington!). Il concetto è quello di riuscire a esprimersi in qualsiasi contesto ci si trovi, usando gli spunti musicali che il suono ti suggerisce… almeno questa è l’aspirazione!

Raccontaci di te. Sei in attività ormai da un bel po’ di anni e hai acquisito nel tempo un’importante esperienza internazionale. Cosa ti ha avvicinato al jazz?
I primi concerti di jazz li seguii con mio padre a Umbria Jazz. Mi portò a sentire Johnny Griffin a undici anni, quando avevo già iniziato a suonare il sax tenore. Rimasi affascinato e colpito, pensando che si potessero fare tante cose belle con quello strumento. Poi grazie a uno dei mie primi insegnanti, Mauro Verrone, ho conosciuto la musica di Charlie Parker, Sonny Rollins, John Coltrane, Lester Young e tanti altri… tra cui Massimo Urbani! Le lezioni con Mauro erano molto stimolanti per me che avevo voglia di imparare a suonare e possibilmente di riuscire a farlo bene. Inoltre andavo a lezione con un sassofonista tra i più talentuosi che abbia mai conosciuto, Francesco Satolli. Sassofonista alto di Orvieto, scomparso nel 2008 in un incidente stradale, era una persona e un musicista con una sensibilità superiore, e non lo dico solo io. Con lui abbiamo condiviso anche un’altra bellissima e fondamentale esperienza, che è stata molto formativa per me: la Terni Jazz Orchestra. Questa straordinaria realtà nacque intorno agli inizi del 2000, voluta e sostenuta dal festival Terni in Jazz, e in particolare da Luciano Vanni e Antonio Vanni, diretta da Marco Collazzoni e Bruno Erminero. Purtroppo anche Marco se n’è andato troppo presto, ma il suo ricordo e la sua grandezza sono sempre vivi in me. Abbiamo suonato una sua composizione, Ariò, e l’intero disco è dedicato a lui.

Sei tu che hai scelto il sassofono, oppure il contrario?
Mi piacerebbe pensare che il sassofono abbia scelto me! 🙂

Curiosità. Sei un musicista nato a Orvieto, che si muove tra Roma e Bruxelles. Quanto è importante per un musicista di jazz “respirare” realtà musicali così diverse tra loro?
Fondamentale! A prescindere da quello che uno fa, credo nell’importanza di vedere, scoprire e conoscere. Allargare la visione generale, confrontarsi, accettare culture e tradizioni diverse; in questo modo si possono apprezzare di più anche le cose che quotidianamente ci circondano. Nel jazz, a mio avviso, è importantissimo confrontarsi con più persone possibili; si beneficia sempre di un arricchimento quando si suona con musicisti diversi.

Uno sguardo al futuro. Quali sono i tuoi prossimi progetti? Quali, invece, gli obiettivi che ti poni ora?
Di progetti ne ho molti. Uno fra i tanti che ho in mente è un nuovo disco da realizzare con del repertorio originale. A ottobre poi tornerò a suonare in Belgio, Francia e Germania con il mio quartetto europeo, che vede Nicola Andrioli al piano, Igor Spallati al contrabbasso e Armando Luongo alla batteria. Suoneremo insieme della nuova musica che vorrei registrare a breve. Il mio obiettivo, che è sempre stato anche il mio sogno, è quello di continuare a soffiare nel tubo e provare a fare della bella musica; desidero inoltre migliorarmi, sempre, ogni giorno, e cercare di dare il meglio di me, per me stesso e per gli altri che sono intorno a me.

INFO

www.filippobianchini.com

 

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